di Tiziana Salvino, Dottore di ricerca in diritto costituzionale UNICAL (DISPES)
SOMMARIO: 1. La legge della Regione Puglia 18 aprile 2023, n. 6/2023 davanti alla Corte costituzionale: una nuova sentenza interpretativa di accoglimento 2. La censura della Corte e l’impropria normazione di una materia di competenza statale. 3. Analisi conclusive.
ABSTRACT
IT: La nota a sentenza esamina la pronuncia della Corte costituzionale la sentenza n. 16/2024 che ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Governo italiano contro la legge della Regione Puglia 18 aprile 2023, n. 6/2023, istitutiva del divieto triennale della pesca dei, accogliendo, però, la seconda questione circa il linguaggio utilizzato dal legislatore regionale, poiché in grado di lasciare spazio a pochi dubbi, minacciando la certezza del diritto.
EN: The note to the judgment examines the ruling of the Constitutional Court judgment no. 16/2024 which declared unfounded the question of constitutional legitimacy raised by the Italian Government against the law of the Puglia Region of 18 April 2023, no. 6/2023, establishing the three-year ban on fish fishing, accepting, however, the second question about the language used by the regional legislator, because it leaves little room for doubt, threatening legal certainty.
- La legge della Regione Puglia 18 aprile 2023, n. 6/2023 davanti alla Corte costituzionale: una nuova sentenza interpretativa di accoglimento
Attraverso la sentenza n. 16/2024, la Corte costituzionale ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Governo italiano contro la legge della Regione Puglia 18 aprile 2023, n. 6/2023, istitutiva del divieto triennale della pesca dei ricci di mare in Puglia, al fine di garantire un periodo di riposo della specie, preservando la risorsa ittica e scongiurando il rischio di estinzione, accogliendo, tuttavia, la questione circa il lessico utilizzato dal legislatore regionale, poiché in grado di lasciare spazio a non pochi dubbi e, circostanza ancor più grave, minare la certezza del diritto.
Nelle parole della Corte costituzionale, la Regione Puglia ha introdotto “una misura specifica, concernente un fermo pesca disposto una tantum, che si riflette temporaneamente su un’attività che si svolge sui fondali posti a breve distanza dalle coste pugliesi e che riguarda una risorsa ittica, il cui consumo è strettamente correlato al territorio e alle tradizioni locali, tant’è che la misura è la conseguenza di un massiccio sovra-sfruttamento”.
Il fermo della pesca, pertanto, non è “incompatibile con una possibile modulazione di interventi legislativi regionali, mirati a risolvere specifiche criticità locali”. Al di fuori delle ipotesi, ove, dunque, la ratio dell’intervento legislativo statale in materia di protezione dell’ambiente determini uno standard di tutela minimo, può invece dispiegarsi l’esercizio di competenze legislative regionali, che intervengano indirettamente a elevare quello standard.
Nel caso di specie, la Corte ha ritenuto che gli artt. 1 e 2 della legge Regione Puglia n. 6 del 2023 presentino un carattere specifico, temporaneo e territorialmente circoscritto, rendendo, dunque, non imprescindibile un bilanciamento operato sul piano statale. Diversa considerazione ha avuto, invece, il secondo motivo di ricorso.
Nello stigmatizzare l’infelice tecnica normativa adottata dal legislatore pugliese, che si è avvalso, nelle disposizioni impugnate, di espressioni in maniera lessicalmente eterogenea per esprimere il medesimo concetto (quali le nozioni di «mari regionali», di «mare territoriale della Puglia» e di mari territorialmente non appartenenti alla Regione Puglia»), i giudici costituzionali hanno rilevato che «i tre sintagmi lessicali adoperati interferiscono direttamente con la nozione di mare territoriale, quale enucleata dall’art. 2 cod. nav., che definisce un elemento costitutivo della sovranità, evocando un frazionamento di tale paradigma su base regionale, che è del tutto sconosciuto all’ordinamento giuridico».
- La censura della Corte e l’impropria normazione di una materia di competenza statale.
Dunque, il fulcro della sentenza si rinviene nella volontà della Cote costituzionale di censurare le parole utilizzate dal legislatore pugliese, tanto perché dal loro tenore letterale discenderebbe un’impropria normazione di una materia di competenza statale, quanto perché talune locuzioni, lasciando spazio a dubbi, violano il concetto stesso di chiarezza del diritto. La Consulta segue, perciò una strada che le è stata particolarmente cara negli anni, ma meno di recente, inaugurando nuovamente le sentenze interpretative di accoglimento.
In effetti, l’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso questioni di legittimità costituzionale per gli artt. 1 e 2 della legge Regione Puglia n. 6 del 2023, per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., con riguardo alla materia «tutela dell’ambiente [e] dell’ecosistema», in relazione all’art. 32 della legge n. 963 del 1965, all’art. 24 del d.lgs. n. 4 del 2012, nonché all’art. 4 del D.M. 12 gennaio 1995; e per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera a), Cost., con riguardo alle materie «politica estera e rapporti internazionali dello Stato» e «rapporti dello Stato con l’Unione europea», in relazione all’art. 2 cod. nav. La prima disposizione impugnata – l’art. 1 – prevede che «la Regione Puglia intende favorire il ripopolamento del riccio di mare nei mari regionali, garantendo un periodo di riposo della specie, preservando la risorsa ittica e scongiurando il rischio di estinzione dovuto ai massicci prelievi». L’altra previsione impugnata – l’art. 2 – dispone: al comma 1, che «[n]el mare territoriale della Puglia, a decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge è vietato il prelievo, la raccolta, la detenzione, il trasporto, lo sbarco e la commercializzazione degli esemplari di riccio di mare (Paracentrotus lividus) e dei relativi prodotti derivati freschi, per un periodo di tre anni»; e, al comma 2, che «[l]a commercializzazione del riccio di mare non è vietata per gli esemplari provenienti (con certificazioni e tracciabilità secondo legge) da mari territorialmente non appartenenti alla Regione Puglia». Dunque, i motivi di ricorso sono due, anzitutto, l’Avvocatura generale dello Stato ritiene che le citate norme si porrebbero in contrasto con la competenza legislativa esclusiva statale nella materia «tutela dell’ambiente [e] dell’ecosistema», che, secondo quanto argomenta il ricorso, deve ritenersi «“trasversale” e “prevalente”». Spetterebbe, pertanto, esclusivamente allo Stato «fissare livelli di tutela ambientale uniformi sull’intero territorio nazionale». Di riflesso, benché la tutela ambientale non potrebbe che toccare «“campi di esperienza” – le cosiddette “materie” in senso proprio – attribuiti alla competenza legislativa regionale», nondimeno le norme statali adottate nell’esercizio di tale competenza esclusiva fungerebbero «da preciso limite alla disciplina che le Regioni, anche a statuto speciale, e le Province autonome, possono adottare nei settori di loro competenza, non essendo ad esse consentito di compromettere il punto di equilibrio fra esigenze contrapposte, per come individuato dalla norma statale» (è richiamata la sentenza della Corte costituzionale n. 197 del 2014).
L’Avvocatura, inoltre, impugna le medesime disposizioni regionali, in quanto invasive della competenza legislativa esclusiva dello Stato nelle materie «politica estera e rapporti internazionali dello Stato» e «rapporti dello Stato con l’Unione europea», di cui all’art. 117, secondo comma, lettera a), Cost. In particolare, l’asserita invasione della competenza legislativa statale esclusiva si determinerebbe là dove le disposizioni regionali impugnate, per delimitare il proprio ambito applicativo, fanno riferimento ai «mari regionali» (art. 1), al «mare territoriale della Puglia» e ai «mari territorialmente non appartenenti alla Regione Puglia» (art. 2). In sostanza, il presupposto delle disposizioni impugnate sarebbe costituito «dalla astratta configurabilità di un “mare territoriale regionale”, ipoteticamente appartenente o riferibile alla Regione Puglia, quale ambito entro il quale la stessa Regione sarebbe abilitata ad esercitare la propria potestà normativa». Ciò si porrebbe in aperto contrasto con quanto disposto dall’art. 2 cod. nav., invocato quale norma interposta, che assoggetta alla sovranità dello Stato – nei limiti indicati dalla medesima previsione – i golfi, i seni, le baie e le coste che circondano le «coste continentali ed insulari della Repubblica». Secondo l’Avvocatura dello Stato, «la individuazione, delimitazione e classificazione dello “spazio marino” [sarebbero] precluse alla competenza regionale, in quanto soggette anche ad interessi internazionali e a discipline dettate dal diritto dell’Unione Europea».
Nell’esame della prima motivazione di ricorso, occorre sottolineare che, secondo l’Avvocatura di Stato, le disposizioni regionali impugnate avrebbero alterato l’esigenza di «livelli di tutela ambientale uniformi sull’intero territorio nazionale» e avrebbero compromesso «il punto di equilibrio fra esigenze contrapposte, per come individuato dalla norma statale». In particolare, il ricorrente richiama varie norme interposte che conducono, attraverso collegamenti sistematici, alla disciplina dettata dall’art. 4 del D.M. 12 gennaio 1995, che stabilisce i limiti temporali volti a regolare la pesca professionale e sportiva del riccio di mare. Il richiamato decreto è stato, infatti, adottato ai sensi dell’art. 32 della legge n. 963 del 1965, in base al quale l’allora Ministro della marina mercantile (le cui competenze in materia sono state poi trasferite al Ministro delle risorse agricole, alimentari e forestali, e successivamente al Ministro dell’agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste) poteva «con suo decreto, sentita la Commissione consultiva centrale per la pesca marittima, emanare norme per la disciplina della pesca anche in deroga alle discipline regolamentari, al fine di adeguarla al progresso delle conoscenze scientifiche e delle applicazioni tecnologiche, e favorirne lo sviluppo in determinate zone o per determinate classi di essa». Di seguito, il d.lgs. n. 4 del 2012 ha, da un lato, abrogato e sostituito la precedente legge n. 963 del 1965 (art. 27, commi 1, lettera a, e 2), e, da un altro lato, ha ribadito che compete al Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali (oggi: Ministro dell’agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste) regolare, con proprio decreto, sentita la Commissione consultiva centrale per la pesca marittima, «la pesca anche in deroga alle discipline regolamentari nazionali, in conformità alle norme comunitarie, al fine di adeguarla al progresso delle conoscenze scientifiche e delle applicazioni tecnologiche, e favorirne lo sviluppo in determinate zone o per determinate classi di essa» (art. 24, comma 1), nonché «sospendere l’attività di pesca o disporne limitazioni in conformità alle disposizioni del regolamento (CE) n. 2371/2002, al fine di conservare e gestire le risorse della pesca» (art. 24, comma 2).
Sulla premessa della persistente vigenza del D.M. 12 gennaio 1995, le disposizioni regionali impugnate avrebbero, dunque, alterato il punto di equilibrio individuato dall’art. 4 del citato decreto ministeriale, secondo cui «[l]a pesca professionale e sportiva del riccio di mare è vietata nei mesi di maggio e giugno». La questione, secondo la Consulta, non è fondata. La Corte individua l’ambito della competenza legislativa statale esclusiva nella materia «tutela dell’ambiente [e] dell’ecosistema», nonché l’ambito della competenza legislativa regionale residuale nella materia della pesca. Sin dalle prime pronunce rese dopo la riforma del Titolo V della Parte seconda della Costituzione, la Corte ha riconosciuto alla materia «tutela dell’ambiente [e] dell’ecosistema» i tratti propri di una competenza legislativa trasversale, governata dall’elemento teleologico, il cui dispiegarsi lascia agevolmente prefigurare possibili interferenze rispetto all’esercizio di competenze legislative spettanti alle regioni[1]. Di riflesso, la Corte, da un lato, non ha escluso «la titolarità in capo alle Regioni di competenze legislative su materie per le quali […] assume rilievo (sentenza n. 407 del 2002)» (sentenza n. 536 del 2002) la protezione dell’ambiente. Da un altro lato, ha chiarito in che termini la competenza legislativa statale esclusiva in materia di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema opera quale limite all’esercizio delle competenze legislative regionali e in che misura queste ultime possono invece dispiegarsi, andando a lambire la tutela ambientale. In particolare, la Consulta ha affermato che le disposizioni legislative statali «“fungono da limite alla disciplina che le Regioni, anche a statuto speciale, dettano nei settori di loro competenza, [nel senso che] ad esse [è] consentito soltanto eventualmente di incrementare i livelli della tutela ambientale, senza però compromettere il punto di equilibrio tra esigenze contrapposte espressamente individuato dalla norma dello Stato.
La Corte aveva già precisato che la stessa «valutazione intorno alla “previsione di standard ambientali più elevati non può essere realizzata nei termini di un mero automatismo o di una semplice sommatoria – quasi che fosse possibile frazionare la tutela ambientale dagli altri interessi costituzionalmente rilevanti – ma deve essere valutata alla luce della ratio sottesa all’intervento normativo e dell’assetto di interessi che lo Stato ha delineato nell’esercizio della sua competenza esclusiva” (sentenza n. 147 del 2019)» (sentenza n. 178 del 2019).
Se, dunque, nel garantire la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema il legislatore statale ha concepito un disegno unitario, eventualmente anche attraverso soluzioni modulate fra i vari ambiti territoriali, simile ratio non ammette interventi legislativi regionali suscettibili di determinare interferenze, anche se in melius rispetto alla tutela dell’ambiente[2]. Al di fuori delle citate ipotesi, ove, dunque, la ratio dell’intervento legislativo statale in materia di protezione dell’ambiente sia riconducibile alla previsione di uno standard di tutela minimo, può invece dispiegarsi l’esercizio di competenze legislative regionali, che intervengano indirettamente a elevare quello standard. Il limite che pone allora la competenza legislativa statale al bilanciamento di interessi individuato dal legislatore regionale è che esso non vìoli lo standard di tutela minimo fissato dalla previsione statale[3]. In tal caso, le regioni e le province autonome possono, pertanto, «adottare norme di tutela ambientale più elevata», pur sempre «nell’esercizio di [loro] competenze, previste dalla Costituzione, che concorrano con quella dell’ambiente»[4]. Così, nella sentenza n. 7 del 2019, si è riconosciuto che «la normativa regionale in tema di specie cacciabili è abilitata a derogare alla disciplina statale in materia di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, purché, ove quest’ultima esprima regole minime e uniformi di tutela, innalzi tale livello di protezione».
- Analisi conclusiva
Dopo la riforma del Titolo V della Parte seconda della Costituzione, la Consulta ha ritenuto superata la pregressa distinzione fra la pesca nelle acque interne, in passato assegnata alla competenza legislativa concorrente delle regioni, e la pesca in mare, e ha ritenuto che trovasse «conferma la progressiva generale attribuzione della “pesca” alle Regioni ordinarie, senza alcuna distinzione basata sulla natura delle acque. La pesca, pertanto, costituisce materia oggetto della potestà legislativa residuale delle Regioni, ai sensi dell’art. 117, quarto comma, Cost.» (sentenza n. 213 del 2006; nonché, in senso analogo, sentenza n. 81 del 2007). Occorre, pertanto, verificare se le disposizioni regionali impugnate possano ascriversi all’esercizio della competenza legislativa residuale regionale nella materia della pesca e se ricorrano le condizioni che consentono il dispiegarsi di tale competenza legislativa regionale, con contenuti che lambiscono la tutela dell’ambiente. Sul piano contenutistico e teleologico, le disposizioni impugnate regolamentano un profilo particolare dell’attività di pesca del riccio di mare, un fermo pesca straordinario, il cui obiettivo, enunciato dalla prima disposizione impugnata (l’art. 1), è quello di preservare tale risorsa ittica, ai fini del futuro svolgimento dell’attività di pesca lungo le coste del territorio regionale.
Nello specifico, la risorsa ittica, di cui viene temporaneamente sospesa l’attività di pesca, si trova nei fondali a breve distanza dalla linea di costa e il suo sfruttamento economico è strettamente correlato alle tradizioni locali. In particolare, dall’art. 1 si inferisce che l’intervento è motivato dai «massicci prelievi» effettuati nelle aree prospicienti la costa pugliese, il che si collega al rilievo di simile risorsa nell’ambito delle tradizioni locali, rilievo che viene amplificato dal suo impiego ai fini del turismo. Dunque, per contrastare il sovra-sfruttamento a livello locale di tale risorsa ittica, l’art. 2, a sua volta impugnato, prevede una sospensione per tre anni dell’attività di pesca, che si svolge nelle aree marine prospicienti la costa regionale, con una temporanea compressione di contrapposti interessi (economici e non). La disciplina attiene, pertanto, alla materia della pesca, pur andando senza dubbio a intersecare un profilo di tutela ambientale. Non sfugge alla Corte che la disciplina regionale impugnata rientra nel cono d’ombra di quella che, nei rapporti fra Unione europea e Stati membri, è una competenza legislativa che l’art. 3, comma 1, lettera d), TFUE assegna in via esclusiva all’Unione europea: vale a dire, la conservazione delle risorse biologiche del mare nel quadro della politica comune della pesca. Nondimeno, nell’esercizio di tale competenza esclusiva, l’Unione europea – con il regolamento (UE) n. 1380/2013, del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11 dicembre 2013, relativo alla politica comune della pesca, che modifica i regolamenti (CE) n. 1954/2003 e (CE) n. 1224/2009 del Consiglio e che abroga i regolamenti (CE) n. 2371/2002 e (CE) n. 639/2004 del Consiglio, nonché la decisione 2004/585/CE del Consiglio, ha adottato un approccio che non esclude spazi di possibile autonomo intervento da parte degli Stati membri, in mancanza di misure analoghe adottate dall’Unione per la medesima zona o per il medesimo problema[5]. Di conseguenza, fermo restando che, con il ricorso in esame, non viene contestata la violazione di alcuna specifica previsione dettata dall’Unione europea, si deve rilevare che, là dove l’Unione preserva ambiti di disciplina agli Stati membri, non possono a priori escludersi misure nazionali che lascino spazio a limitati interventi regionali. Tornando, dunque, a considerare, nella prospettiva interna, il possibile inquadramento delle disposizioni impugnate nella competenza legislativa regionale residuale in materia di pesca e il loro rapporto con la competenza legislativa statale esclusiva in materia di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, va osservato che l’incidenza della disciplina impugnata è limitata sul piano degli interessi implicati.
Gli artt. 1 e 2 della legge Regione Puglia n. 6 del 2023 introducono, infatti, una misura specifica, concernente un fermo pesca disposto una tantum, che si riverbera temporaneamente su un’attività che si svolge sui fondali posti a breve distanza dalle coste pugliesi e che riguarda una risorsa ittica, il cui consumo è strettamente correlato al territorio e alle tradizioni locali, tant’è che la misura è la conseguenza di un massiccio sovra-sfruttamento. Il carattere specifico, temporaneo e territorialmente circoscritto delle disposizioni impugnate rende, dunque, non imprescindibile un bilanciamento operato sul piano statale.
Quanto alle modalità con cui lo Stato, nel concreto esercizio della sua competenza legislativa esclusiva a «tutela dell’ambiente [e] dell’ecosistema», è intervenuto nel regolare la conservazione della specie riccio di mare, si deve ritenere che la soluzione adottata, con riguardo al fermo pesca, non sia incompatibile con una possibile modulazione di interventi legislativi regionali, mirati a risolvere specifiche criticità locali. La disciplina dettata dal D.M. 12 gennaio 1995 – alla quale conducono i rimandi sistematici operati dalle disposizioni evocate quali parametri interposti – ha, infatti, previsto, con riferimento al fermo pesca, una soluzione generale (la sospensione nei mesi di maggio e di giugno), non modulata in funzione delle peculiari criticità di alcune zone costiere, nelle quali le condizioni ambientali si sono particolarmente aggravate. Pertanto, sul piano ermeneutico, tale profilo della disciplina statale non può che interpretarsi quale previsione di uno standard di tutela minimo. Di conseguenza, in linea con la costante giurisprudenza della Corte[6], non contrastano con la competenza legislativa statale esclusiva dello Stato le disposizioni regionali impugnate.
La Corte, passando alla seconda disposizione impugnata, ricorda che non ha mai consentito alle regioni di fare riferimento a «un mare territoriale» regionale (sentenza n. 21 del 1968, ripresa dalla sentenza n. 39 del 2017), ma ha solo riconosciuto loro la facoltà di esercitare sulle acque costiere, nei limiti di precise competenze regionali, «un complesso di poteri […] che coesistono con quelli spettanti allo Stato: poteri […] che prescindono da ogni problema relativo all’appartenenza del mare territoriale e che sono suscettibili di essere regolati anche dalla legge regionale (come rilevato dalla […] sentenza n. 23 del 1957)» (ancora, sentenza n. 102 del 2008). Sulla base di tali precisazioni, è possibile, dunque, esaminare le censure del ricorrente che si appuntano sull’introduzione nelle disposizioni impugnate delle nozioni di «mari regionali», di «mare territoriale della Puglia» e di «mari territorialmente non appartenenti alla Regione Puglia». Appare doveroso rimarcare l’infelice tecnica normativa adottata dal legislatore pugliese, che si è avvalso – nelle disposizioni impugnate – di espressioni lessicalmente eterogenee per esprimere il medesimo concetto. Ma soprattutto, occorre rilevare che i tre sintagmi lessicali[7] adoperati interferiscono direttamente con la nozione di mare territoriale, quale enucleata dall’art. 2 cod. nav. – che definisce un elemento costitutivo della sovranità –, ed evocano un frazionamento di tale paradigma su base regionale, che è del tutto sconosciuto all’ordinamento giuridico. Viceversa, come si evince dalla giurisprudenza della Corte (punto 11), gli effetti spaziali di un intervento legislativo regionale, che ha riverberi sullo spazio marino, non sono altro che una proiezione funzionale della competenza legislativa regionale esercitata e della natura degli interessi coinvolti e non consentono di evocare una supposta delimitazione del mare territoriale, inteso come elemento costitutivo della sovranità dello Stato. Pertanto, la seconda questione avente a oggetto quanto prevedono gli artt. 1 e 2 della legge Regione Puglia n. 6 del 2023 è fondata, nella parte in cui le citate disposizioni stabiliscono che la Regione Puglia favorisce il ripopolamento del riccio di mare «nei mari regionali», anziché «nello spazio marittimo prospiciente il territorio regionale» (art. 1); nella parte in cui dispongono il fermo biologico dei ricci di mare «Nel mare territoriale della Puglia», anziché «Nello spazio marittimo prospiciente il territorio regionale» (art. 2, comma 1); nella parte in cui escludono dall’applicazione del divieto di commercializzazione del riccio di mare gli esemplari provenienti «da mari territorialmente non appartenenti alla Regione Puglia», anziché «dallo spazio marittimo non prospiciente il territorio regionale» (art. 2, comma 2)[8]. Sulla stregua di siffatte argomentazioni, la Corte costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 della legge della Regione Puglia 18 aprile 2023, n. 6 (Misure di salvaguardia per la tutela del riccio di mare), nella parte in cui favorisce il ripopolamento del riccio di mare «nei mari regionali», anziché «nello spazio marittimo prospiciente il territorio regionale», dell’art. 2, comma 1, della legge Regione Puglia n. 6 del 2023, nella parte in cui dispone il fermo biologico dei ricci di mare «Nel mare territoriale della Puglia», anziché «Nello spazio marittimo prospiciente il territorio regionale» e dell’art. 2, comma 2, della legge Regione. Puglia n. 6 del 2023, nella parte in cui esclude dall’applicazione del divieto di commercializzazione gli esemplari di riccio di mare provenienti «da mari territorialmente non appartenenti alla Regione Puglia», anziché «dallo spazio marittimo non prospiciente il territorio regionale»; dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 della legge Regione Puglia n. 6 del 2023, promossa, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione.
[1] Ex plurimis, sentenze n. 160 del 2023, n. 191, n. 144 e n. 21 del 2022, n. 189, n. 158, n. 86 e n. 21 del 2021, n. 88 del 2020.
[2] Sentenze n. 258 e n. 88 del 2020.
[3] Sentenze n. 148 del 2023, n. 69 del 2022, n. 44 e n. 7 del 2019, n. 218, n. 174, n. 139 e n. 74 del 2017, n. 303 del 2013 e n. 278 del 2012.
[4] Sentenze n. 198 e n. 66 del 2018, n. 199 del 2014; nello stesso senso, inoltre, sentenze n. 246 e n. 145 del 2013, n. 67 del 2010, n. 104 del 2008 e n. 378 del 2007.
[5] Considerato in diritto 7.2.
[6] Sentenze n. 148 del 2023, n. 44 e n. 7 del 2019, n. 218, n. 174, n. 139 e n. 74 del 2017, n. 303 del 2013 e n. 278 del 2012, nonché le altre pronunce richiamate al punto 6.1.3.
[7] Considerato in diritto 12.1.
[8] Considerato in diritto 12.2.