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Note alla sentenza della Corte costituzionale n. 19 del 2025 (in tema di rivalutazione degli assegni pensionistici)

 di Valentino De Nardo, già Presidente di Sezione della Corte di Cassazione

LE ORDINANZE DEI GIUDICI DI RINVIO

        Le sezioni giurisdizionali della Corte dei conti per la Regione Toscana (r.o. n. 182 e n. 238 del 2024) e per la Regione Campania (r.o. n. 185 del 2024) hanno sollevato questioni di legittimità costituzionale, complessivamente, dell’art. 1, comma 309, della legge n. 197 del 2022 (legge di bilancio per il 2023) e dell’art. 69, comma 1, della legge n. 388 del 2000 (legge finanziaria per il 2001), entrambe disposizioni che incidono sui meccanismi di adeguamento degli assegni pensionistici alle variazioni del costo della vita.

        In particolare, l’art. 1, comma 309, della legge n. 197 del 2022, stabilisce che, per l’anno 2023, la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici è riconosciuta integralmente solo per quelli complessivamente pari o inferiori a quattro volte il minimo INPS; per quelli superiori, invece, la rivalutazione viene accordata in misura decrescente: 85 per cento per gli assegni pari o inferiori a cinque volte il minimo; 53 per cento per quelli di importo compreso tra cinque e sei volte tale soglia; 47 per cento per i trattamenti inclusi in una forbice tra le sei e le otto volte il suddetto limite; 37 per cento per quelli rientranti nell’intervallo tra le otto e le dieci volte il medesimo livello; 32 per cento per i trattamenti superiori a dieci volte il minimo.

        L’art. 69, comma 1, della legge n. 388 del 2000, dal suo canto, prevede che, a decorrere dal 1° gennaio 2001, l’indice di rivalutazione automatica delle pensioni è applicato per fasce di importo dei trattamenti pensionistici complessivi : a) nella misura del 100 per cento per quelle fino a tre volte il trattamento minimo INPS; b) nella misura del 90 per cento per quelle comprese tra tre e cinque volte tale soglia; c) nella misura del 75 per cento per quelle superiori a cinque volte il suddetto limite minimo.

        In tutti i giudizi principali, i ricorrenti hanno chiesto al giudice delle pensioni – per gli anni dal 2022 al 2024, nei giudizi di cui al r.o. n. 182 e n. 185 del 2024, e a decorrere dal 1° gennaio 2023, nel giudizio di cui al r.o. n. 238 del 2024 – l’accertamento del diritto (disconosciuto in sede amministrativa) alla rivalutazione integrale dell’assegno in godimento, nei primi due casi superiore a dieci volte il trattamento minimo e, nel terzo, di importo compreso tra le sei e le otto volte tale soglia di riferimento.

        Per i rimettenti, esclusivamente l’accoglimento delle questioni sollevate consentirebbe l’integrale rivalutazione dei trattamenti pensionistici richiesta dai ricorrenti.

        La sola ordinanza iscritta al r.o. n. 182 del 2024 ha ritenuto che, in caso di accoglimento delle questioni sollevate sull’art. 1, comma 309, della legge n. 197 del 2022, la rivalutazione dei trattamenti pensionistici per l’anno 2023 tornerebbe a essere disciplinata dall’art. 69, comma 1, della legge n. 388 del 2000, asseritamente già applicato per l’anno 2022. Di conseguenza, viene censurata pure tale disposizione, nel suo escludere anch’essa la completa indicizzazione delle pensioni medio-alte.

        In punto di non manifesta infondatezza, l’articolazione delle doglianze avanzate dai diversi rimettenti ha seguito percorsi solo parzialmente sovrapponibili.

        In relazione all’art. 1, comma 309, della legge n. 197 del 2022, tutte le ordinanze ne hanno sospettato il contrasto con gli artt. 3, 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost.

        Specifiche doglianze sono state avanzate dalla sezione giurisdizionale per la Regione Toscana della Corte dei conti, in riferimento anche agli artt. 1, primo comma, 4, secondo comma, e 23 Cost.

        La sola ordinanza iscritta al r.o. n. 182 del 2024 ha ritento che pure l’art. 69, comma 1, della legge n. 388 del 2000 (legge finanziaria per il 2001) contrasti con tutti i parametri innanzi indicati.

In sintesi, i giudici di rinvio hanno evidenziato che:

  • al momento della promulgazione della Legge di Bilancio, non sussisteva un’emergenza finanziaria e che la riduzione dell’adeguamento delle pensioni, introdotta per la prima volta in una manovra di bilancio espansiva, aveva lo scopo di finanziare misure necessarie, sia per affrontare l’emergenza sanitaria, sia per sostenere la ripresa economica successiva;
  • tuttavia si notava una contraddizione tra l’obiettivo di sostegno e la decisione di limitare l’adeguamento delle pensioni all’inflazione, penalizzando così una delle categorie più vulnerabili: i pensionati;
  • peraltro, i tagli alla rivalutazione delle pensioni erano stati usati per finanziare interventi minori in ambito lavorativo, familiare e sociale;
  • che, rispetto a chi lavora, i pensionati hanno meno possibilità di proteggersi dall’inflazione o di recuperare le perdite; per questo motivo, il loro potere d’acquisto dipende quasi interamente dal meccanismo di indicizzazione delle pensioni; in fondo, la capacità di proteggere le pensioni dall’inflazione è uno dei principali vantaggi di un sistema previdenziale pubblico;
  • penalizzare i pensionati con trattamenti più elevati significa danneggiare, non solo le loro aspettative economiche, ma anche svalutare la loro dignità; inoltre, tenendo conto delle modifiche peggiorative del meccanismo di adeguamento, le pensioni più alte non vengonoconsiderate dal legislatore come un giusto riconoscimento per l’impegno e le capacità dimostrate durante la vita lavorativa, ma vengono trattate come un privilegio, e, pertanto, sacrificabili in nome di un’asserita equità tra generazioni;
  • il lavoro, come contributo al progresso sociale, richiede il rispetto del principio di proporzionalità tra retribuzione e qualità del lavoro svolto e questo principio deve essere mantenuto anche in favore dei pensionati, al fine di tutelare la loro dignità, che non va sminuita una volta conclusa l’attività lavorativa;
  • le pensioni sono frutto del lavoro, per cui, penalizzarle da un certo importo in su, significa disincentivare il lavoro regolare, favorendo il nero e mandare un messaggio sbagliato ai giovani, per cui non vale la pena studiare e aspirare a lavori ben retribuiti, anche dirigenziali, se poi la pensione sarà tagliata.

        Poiché i suddetti atti introduttivi miravano al medesimo risultato ed evocavano parametri largamente coincidenti, i tre giudizi sono stati riuniti e decisi con unica sentenza.

 

IL QUADRO NORMATIVO

        Per comprendere la portata dei dubbi di legittimità costituzionale qui sollevati, è necessario ripercorrere, sia pur sinteticamente, l’evoluzione degli interventi legislativi che hanno inciso sulla dinamica rivalutativa degli assegni pensionistici.

La perequazione consiste nella rivalutazione dell’importo pensionistico al fine di adeguarlo all’aumento del costo della vita mantenendo intatto il potere di acquisto dei pensionati.

        La perequazione automatica dei trattamenti pensionistici, disciplinata inizialmente dall’art. 10 della legge n. 903 del 1965, nacque come meccanismo volto ad adeguare le pensioni ai mutamenti del potere di acquisto della moneta, ben presto agganciato all’aumento percentuale dell’indice del costo della vita calcolato dall’ISTAT ai fini della “scala mobile” delle retribuzioni dei lavoratori dell’industria.

        Sopravvenuta l’abolizione della scala mobile (per effetto del protocollo d’intesa del 31 luglio 1992), allo scopo di compensare l’eliminazione dell’aggancio alle dinamiche salariali e collegare l’adeguamento delle pensioni all’evoluzione del livello medio del tenore di vita nazionale, l’art. 11, comma 1, del d.lgs. n. 503 del 1992, stabilì che gli aumenti a titolo di perequazione fossero calcolati sul valore medio dell’indice ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati.

        Già in epoca risalente, tuttavia, il legislatore cominciò a intervenire per “rallentare” la dinamica perequativa.

        L’art. 59, comma 13, della legge n. 449 del 1997, per la prima volta e per il solo anno 1998, azzerò l’applicazione della perequazione automatica ai trattamenti di importo medio-alto, ossia superiori a cinque volte il trattamento minimo.

        In seguito, con l’art. 34, comma 1, della legge n. 448 del 1998, vennero fissate le regole generali di applicazione che, a tutt’oggi governano la perequazione automatica dei trattamenti pensionistici, in virtù del costante rinvio a tale disposizione operato dai successivi interventi legislativi, inclusi quelli oggetto dell’odierno giudizio costituzionale. In base ad esso, la rivalutazione si applica, per ogni singolo beneficiario, “in funzione dell’importo complessivo dei trattamenti” percepiti, con la precisazione che l’aumento dovuto viene attribuito “in misura proporzionale all’ammontare del trattamento da rivalutare rispetto all’ammontare complessivo”.

        In conformità a tali principi generali, l’art. 69, comma 1, della legge n. 388 del 2000 previde che l’indice di rivalutazione automatica delle pensioni fosse applicato per scaglioni di importo sui trattamenti pensionistici complessivi: a) nella misura del 100 per cento per scaglioni di importo fino a tre volte il trattamento minimo INPS; b) nella misura del 90 per cento scaglioni compresi tra tre e cinque volte tale soglia e c) nella misura del 75 per cento per quelli superiori a cinque volte il suddetto limite minimo. Inoltre, rese permanente tale sistema di rivalutazione, in quanto destinato a operare “ a decorrere dal 1° gennaio 2001”.

        Tuttavia, tale regola generale è stata più volte oggetto di deroghe negli anni successivi, nella maggior parte dei casi, finalizzate a limitare ulteriormente, per periodi temporanei, la progressione rivalutativa degli assegni pensionistici, differenziandoli in base ad aliquote decrescenti sugli importi complessivi dei medesimi . E su tali deroghe si è ripetutamente espressa la Corte Costituzionale.

        Infatti, per il solo anno 2008, l’art. 1, comma 19, della legge n. 247 del 2007 escluse la rivalutazione automatica per i trattamenti pensionistici superiori a otto volte quello minimo, superando indenne lo scrutinio di legittimità costituzionale (sentenza n. 316 del 2010).

        Inoltre, per il biennio 2012-2013, l’art. 24, comma 25, del d.l. n. 201 del 2011, come convertito, riconobbe la rivalutazione automatica per i soli trattamenti pensionistici fino a tre volte quello minimo, escludendola per tutti quelli di importo superiore.

        Sopravvenuta la declaratoria d’illegittimità costituzionale di tale esclusione per effetto della sentenza di questa Corte n. 70 del 2015, il d.l. n. 65 del 2015 sostituì il citato comma 25 dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, riconoscendo, per il biennio 2012-2013, la rivalutazione automatica anche in favore dei trattamenti pensionistici superiori a tre volte e pari o inferiori a sei volte quello minimo, secondo un meccanismo – giudicato positivamente dalla sentenza n. 250 del 2017 – decrescente in relazione inversa rispetto alla misura delle pensioni, ma confermando il blocco totale della perequazione per i trattamenti di ammontare superiore.

        Il modello dell’indicizzazione decrescente in base all’importo dell’assegno pensionistico era stato già introdotto, per gli anni successivi al 2013, dalla legge n. 147 del 2013, il cui art. 1, comma 483, lo aveva applicato, per il periodo 2014-2016, a tutti i trattamenti pensionistici, ancora una volta salvaguardando integralmente solo quelli pari o inferiori a tre volte il trattamento minimo INPS, con un meccanismo uscito indenne dalle censure di illegittimità costituzionale pure sollevate (sentenza n. 173 del 2016) e quindi prorogato, in forma sostanzialmente invariata, fino al 2018 dalla legge n. 208 del 2015.

        In seguito, l’art. 1, comma 260, della legge n. 145 del 2018, per il periodo 2019-2021, riconobbe la rivalutazione automatica mediante un modulo del tutto analogo a quello oggetto del presente giudizio: ferma la rivalutazione integrale dei trattamenti pensionistici pari o inferiori a tre volte il trattamento minimo INPS, gli indici vennero ridotti al 97 per cento (per gli assegni pari o inferiori a quattro volte il minimo), al 77 per cento (per quelli tra quattro e cinque volte la suddetta soglia), al 52 per cento (per quelli tra cinque e sei volte il limite INPS), al 47 per cento (per quelli tra sei e otto volte il minimo INPS), al 45 per cento (per quelli tra otto e nove volte il livello minimo), per giungere, infine, al 40 per cento riconosciuto alle pensioni complessivamente superiori a nove volte il trattamento minimo INPS.

        Nel frattempo, l’art. 1, comma 478, della legge n. 160 del 2019 introdusse una nuova regola generale della rivalutazione pensionistica, destinata a operare dal 1° gennaio 2022. A partire da tale data, si previde che l’indice di rivalutazione automatica delle pensioni venisse applicato per scaglioni di importo dei trattamenti pensionistici complessivi: a) nella misura del 100 per cento per quelli fino a quattro volte il trattamento minimo INPS; b) nella misura del 90 per cento per quelli compresi tra quattro e cinque volte tale soglia; c) nella misura del 75 per cento per quelli superiori a cinque volte il suddetto limite minimo.

        Si è giunti, quindi, all’altra disposizione oggi in esame (art. 1, comma 309, della legge n. 197 del 2022), in origine destinata a operare per il biennio 2023-2024, ma poi modificata dall’art. 1 della legge n. 213 del 2023, che ne ha ridotto l’ambito applicativo al solo anno 2023 (comma 134), riproducendo, per il 2024, il medesimo meccanismo derogatorio della nuova regola generale della rivalutazione pensionistica, a parte un’ulteriore riduzione al 22 per cento (rispetto al 32 per cento vigente per il 2023) dell’indice di rivalutazione dei trattamenti pensionistici superiori a dieci volte quello minimo.

 

LASENTENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE

 

Ricostruiti il quadro normativo ed il contenuto delle ordinanze di rinvio e, prima di affrontare il merito delle questioni sollevate, occorre definire con precisione il “thema decidendum”.

Preliminarmente, la Corte ha correttamente premesso che nel giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale non possono essere presi in esame questioni o profili di costituzionalità dedotti solo dalle parti e diretti quindi ad ampliare o modificare il contenuto dell’ordinanza di rimessione (ex plurimis, sentenze n. 144, n. 140 e n. 112 del 2024).

Nel caso di specie, le parti private dei rispettivi giudizi di rinvio hanno prospettato una lesione dei principi di uguaglianza e di progressività del prelievo tributario, presidiati dagli artt. 3 e 53 Cost., perché la limitata indicizzazione delle pensioni superiori a un certo importo si configurerebbe come: “una tassazione impropria ed aggiuntiva”, una vera “patrimoniale”, priva però dei requisiti di generalità, proporzionalità e progressività del prelievo (nel giudizio di cui al r.o. n. 182 del 2024); “una prestazione patrimoniale di natura tributaria posta a carico di una sola categoria di contribuenti, in violazione del principio dell’universalità dell’imposizione a parità di capacità contributiva e del principio di eguaglianza”, con conseguente disparità di trattamento anche rispetto ai lavoratori “ancora in servizio” (nel giudizio di cui al r.o. n. 185 del 2024).

Trattandosi di profili che i rimettenti non avevano inteso fare oggetto di specifiche questioni, in quanto diversi da quelli individuati nelle ordinanze di rimessione, essi non sono stati oggetto di valutazione da parte della Corte.

Nel merito, la Corte Costituzionale ha, innanzitutto, dichiarato inammissibili per difetto di rilevanza le questioni sollevate, dalla Corte dei Conti,sezione giurisdizionale per la Regione Toscana, in riferimento all’art. 69, comma 1, della legge n. 388 del 2000, non ritenendolo applicabile nel giudizio principale, neppure in caso di accoglimento delle questioni sollevate sull’art. 1, comma 309, della legge n. 197 del 2022, perché, la disciplina applicabile a tale anno, non censurata in questa sede, è stata modificata dall’art. 1, comma 135, della legge n. 213 del 2023, successiva al deposito dei ricorsi introduttivi dei giudizi principali, per cui la Corte dei conti rimettente non sarebbe mai potuta essere chiamata a farne applicazione nel giudizio principale (ex plurimis, sentenza n. 103 del 2023).

Infatti, la regola generale della dinamica rivalutativa delle pensioni che il suddetto art. 69, comma 1, aveva introdotto a far data dal 1° gennaio 2001, più volte derogata dalla legislazione successiva, è stata sostituita, a partire dal 1° gennaio 2022, dalla nuova regola generale di rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici, prevista dall’art. 1, comma 478, della legge n. 160 del 2019. Quest’ultima, dunque, è l’unica disposizione che, già applicata nell’anno 2022, sarebbe stata chiamata a governare la perequazione dei trattamenti pensionistici, nel caso di accoglimento delle questioni sollevate sull’art. 1, comma 309, della legge n. 197 del 2022.

Nel merito, poi, tutte le questioni sollevate sono state ritenute non fondate dalla Corte, alla luce dei precedenti, da ultimo richiamati dalla sentenza n. 234 del 2020 e, precisamente, perché:

  • la perequazione automatica è uno strumento di natura tecnica, volto a garantire nel tempo l’adeguatezza dei trattamenti pensionistici a fronte delle spinte inflazionistiche (come già chiarito dalle sentenze n. 250 del 2017 e n. 70 del 2015), nel rispetto dei principi di sufficienza e proporzionalità della retribuzione, che però non implicano un rigido parallelismo tra la garanzia di cui all’art. 38, secondo comma, Cost. e quella di cui all’art. 36, primo comma, Cost. (così anche le sentenze n. 250 del 2017 e n. 173 del 2016);
  • la garanzia della perequazione non annulla la discrezionalità del legislatore nella determinazione in concreto del quantumdi tutela di volta in volta necessario (come già affermato dalla sentenza n. 70 del 2015), alla luce delle risorse effettivamente disponibili (sentenza n. 316 del 2010 e ordinanza n. 256 del 2001); nè sussiste, del resto, un imperativo costituzionale che imponga l’adeguamento annuale di tutti i trattamenti pensionistici (sentenze n. 250 del 2017 e n. 316 del 2010), purché la scelta contraria superi uno scrutinio di “non irragionevolezza” (sentenza n. 70 del 2015), calato nel contesto giuridico e fattuale nel quale la misura si inserisce (ordinanza n. 96 del 2018);
  • la sentenza n. 234 del 2020 ha ribadito che il principale indicatore della “non irragionevolezza” dell’opzione legislativa è costituito dalla considerazione differenziata dei trattamenti di quiescenza in base al loro importo, atteso che le pensioni più elevate presentano margini più ampi di resistenza all’erosione inflattiva (come affermato sin dalla sentenza n. 316 del 2010 e ribadito dalla sentenza n. 250 del 2017);
  • e’ sempre indispensabile, tuttavia, da un lato, che sia adeguatamente e dettagliatamente illustrato il quadro economico-finanziario che giustifica la scelta del legislatore, in base a dati oggettivi (sentenze n. 250 del 2017 e n. 70 del 2015) e, dall’altro, che le misure di sospensione e di blocco del meccanismo perequativo siano limitate nel tempo (secondo un monito risalente alla sentenza n. 316 del 2010), ferma restando la necessità di scrutinare ciascun provvedimento nella sua singolarità e in relazione al quadro storico in cui esso si inserisce (sentenza n. 250 del 2017);
  • il congegno normativo in discorso salvaguarda l’integrale rivalutazione delle pensioni di più modesta entità, di cui anzi allarga l’ambito, ricomprendendo in esso quelle di importo pari a quattro volte (e non più a tre) il trattamento minimo INPS e, inoltre, nel disporre un “rallentamento” della dinamica perequativa dei trattamenti di importo superiore, segue la tecnica della progressione inversa rispetto all’entità degli assegni, senza escluderne nessuno dalla rivalutazione, quest’ultima, infatti, viene prevista – sebbene in percentuali ridotte, ma non certo simboliche – anche per i trattamenti di più elevata entità, in ossequio a un criterio di razionalità che trova riscontro nei maggiori margini di resistenza delle pensioni di importo più elevato rispetto agli effetti dell’inflazione.
  • le ragioni delle scelte legislative in rapporto alla situazione generale della finanza pubblica emergono chiaramente dalle relazioni, sia illustrativa che tecnica, che accompagnano il disegno di legge di bilancio per il 2023 (A.C. n. 643) ; in particolare, la relazione illustrativa del Governo evidenzia che l’iniziativa legislativa “si colloca in uno scenario macroeconomico di incertezza che risente delle tensioni geopolitiche e dell’aumento dell’inflazione, dovuto principalmente all’incremento dei prezzi dei prodotti energetici e delle materie prime”; a fronte di ciò, si chiarisce che “l’impostazione della politica di bilancio è diretta a limitare quanto più possibile l’impatto del caro energia sui bilanci delle famiglie, specialmente quelle più fragili”; infatti, il documento conferma che la manovra di finanza pubblica comporta “un peggioramento del saldo tendenziale del bilancio dello Stato di circa 23,7 miliardi di euro nel 2023” e che, quindi, le misure adottate per raggiungere gli obiettivi indicati sono assunte in deficit (ossia con il ricorso ad ulteriore indebitamento), come consentito dalla temporanea sospensione delle regole europee del patto di stabilità; in questo complessivo contesto si collocano anche gli interventi nel settore della previdenza; infatti la relazione illustrativa specifica che il meccanismo di indicizzazione delle pensioni qui scrutinato consente una minore spesa che “al netto degli effetti fiscali” è “pari a circa 2,1 miliardi nel 2023, 4,1 miliardi nel 2024 e 4 miliardi nel 2025”; a sua volta, la relazione tecnica chiarisce che “tali economie strutturali concorrono al conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica, alla progressiva riduzione dell’indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni e alla progressiva ricostituzione di un adeguato livello di avanzo primario, secondo quanto programmato in relazione al percorso di riduzione del debito pubblico”;alla luce di tale carattere “strutturale”, gli effetti della misura, pur se di applicazione limitata (originariamente ad un biennio e poi) ad un anno, si proiettano anche al di là dell’orizzonte triennale della manovra, come è reso evidente dall’indicazione delle “economie in termini di minore spesa pensionistica” previste fino all’anno 2032 e ammontanti, al lordo degli effetti fiscali, a circa 54 miliardi di euro; la stessa relazione, inoltre, illustra in dettaglio la distribuzione del “monte pensioni” in relazione alle soglie introdotte dalla normativa in esame; da tali dati emerge che le pensioni che subiscono un trattamento peggiorativo rispetto al modulo perequativo positivamente scrutinato dalla sentenza n. 234 del 2020 – ossia quelle di importo pari o superiore a otto volte il trattamento minimo – rappresentano l’11,7 per cento del totale complessivo, mentre le restanti vedono invariato o addirittura migliorato il tasso di “elasticità” rispetto alle spinte inflazionistiche, a conferma della precisa scelta legislativa di redistribuire il complesso delle risorse disponibili a vantaggio dei trattamenti di importo più basso;
  • la relazione illustrativa del disegno di legge, peraltro, individua anche ulteriori interventi che la misura in esame contribuisce a finanziare: 1) alcuni di essi si collocano nel medesimo ambito previdenziale, quali la proroga di istituti che favoriscono il pensionamento anticipato, come la cosiddetta “quota 103” (commi da 283 a 285 dell’art. 1 della legge n. 197 del 2022), l’indennità cosiddetta “ape sociale” (commi da 288 a 291) e la cosiddetta “opzione donna” (comma 292); a ciò si aggiunge il sussidio una tantumper le pensioni minime, al fine di contrastare gli effetti negativi delle tensioni inflazionistiche (comma 310); 2) altri interventi, pur estranei al circuito previdenziale, rientrano comunque nel più ampio settore “lavoro, famiglia e politiche sociali” (di cui al Titolo IV dell’originario disegno di legge, comprendente anche la misura oggetto dell’odierno scrutinio), quali la maggiorazione del 50 per cento, a decorrere dal 1° gennaio 2023, dell’assegno unico universale, al ricorrere di certe condizioni (commi 357 e 358), l’incremento dell’indennità per congedo parentale (comma 359), il riordino delle misure di sostegno alla povertà e dirette all’inclusione lavorativa (commi da 313 a 321), interventi che non possono essere qualificati “di minore pregnanza costituzionale” (come sostenuto nei giudizi di cui al r.o. n. 182 e n. 238 del 2024), in quanto perseguono finalità che rientrano nella piena discrezionalità del legislatore, il quale può “stabilire nel concreto le variazioni perequative dell’ammontare delle prestazioni, attraverso un bilanciamento di valori che tenga conto anche delle esigenze di bilancio, poiché l’adeguatezza e la proporzionalità del trattamento pensionistico incontrano pur sempre il limite delle risorse disponibili” (sentenza n. 234 del 2020);
  • la misura in esame, per come congegnata, risulta rispettosa dei parametri evocati, anche se costituisce l’ultimo anello di una catena di interventi analoghi che ha registrato poche soluzioni di continuità nel tempo; la lettura offerta dai rimettenti del monito lanciato da questa Corte con la sentenza n. 316 del 2010 – secondo cui “la sospensione a tempo indeterminato del meccanismo perequativo, ovvero la frequente reiterazione di misure intese a paralizzarlo, esporrebbero il sistema ad evidenti tensioni con gli invalicabili principi di ragionevolezza e proporzionalità” – collide con il dato di fatto che il meccanismo qui scrutinato non comporta “l’effetto di paralizzare, o sospendere a tempo indeterminato, la rivalutazione dei trattamenti pensionistici, neanche di quelli di importo più elevato, risolvendosi viceversa in un mero raffreddamento della dinamica perequativa,attuato con indici graduali e proporzionati”, come già rilevato dalla sentenza n. 234 del 2020, in relazione a previsioni legislative di analogo tenore;
  • con particolare riguardo all’effetto di “trascinamento”, normalmente conseguente a ogni limitazione dell’indicizzazione, questa Corte aveva già affermato che “il principio di adeguatezza enunciato nell’art. 38, secondo comma, Cost. non determina la necessità costituzionale dell’adeguamento annuale di tutti i trattamenti pensionistici, né d’altronde la mancata perequazione per un solo anno incide, di per sé, sull’adeguatezza della pensione (sentenze n. 250 del 2017 e n. 316 del 2010)” (ancora sentenza n. 234 del 2020);a maggior ragione i parametri evocati risultano rispettati allorquando anche i trattamenti più elevati beneficiano di una sia pur ridotta perequazione;
  • nulla esclude, peraltro, che il legislatore possa tener conto della perdita subita, nel calibrare la portata di eventuali successive misure incidenti sull’indicizzazione dei trattamenti pensionistici;
  • del resto, l’art. 1, comma 478, della legge n. 160 del 2019 aveva già dettato una regola che, in ossequio alla durata indeterminata espressamente conferitale, avrebbe dovuto essere interessata con estrema prudenza da cambiamenti improvvisi, incidenti in senso negativo sui comportamenti di spesa delle famiglie;
  • per non risultare arbitrario, ogni provvedimento di raffreddamento della dinamica perequativa non deve necessariamente mirare a combattere la pressione inflazionistica; in realtà, tale scopo non appare affatto necessario (come dimostra il contesto di inflazione marginale in cui è stata adottata la misura positivamente scrutinata dalla sentenza n. 234 del 2020), bastando che il legislatore illustri in dettaglio le finalità di politica economica che intende di volta in volta perseguire, selezionandole alla luce delle risorse disponibili, e che le misure adottate appaiano coerenti con tali finalità.

 

ANALISI DELLA SENTENZA

 

Le regole alla base della scelta delle percentuali di rivalutazione da applicare e delle relative fasce vengono prese di anno in anno con la Legge di Bilancio.

Il Ministero dell’Economia e il Ministero del Lavoro, sulla base dei dati forniti dall’ISTAT (che si occupa di rilevare l’indice dei prezzi al consumo), pubblicano annualmente un decreto in cui sono indicate:

  • la percentuale di rivalutazione provvisoria da applicare alle pensioni nell’anno successivo;
  • la percentuale di rivalutazione definitivaper l’anno in corso al momento dell’emissione del decreto.

Dunque, è possibile che ci siano degli scostamenti tra le rivalutazioni applicate sul singolo anno; in questo caso, si renderà necessario un conguaglio, a favore o a sfavore del pensionato a seconda che la rivalutazione definitiva sia più elevata o più bassa di quella provvisoria.

La normativa che regola la rivalutazione delle pensioni in base all’inflazione ha subito molte modifiche nel tempo.

La Legge n. 448/1998 aveva introdotto, dal 1999, un nuovo meccanismo di rivalutazione automatica delle pensioni, per recuperare l’inflazione. Questo sistema, tradotto in pratica nella legge n. 388/2000, prevede che le pensioni siano rivalutate al 100% dell’inflazione per la fascia di importo fino a 4 volte il trattamento minimo INPS (TM), al 90% per la fascia di importo compresa tra 4 e 5 volte il TM, e al 75% per quella superiore a 5 volte il TM. Da notare che, fino al 2011, il sistema era basato su queste aliquote decrescenti a “scaglioni”, ma dal 2012 si è passati a un sistema a “fasce” di importo, sistema in cui viene applicata un’unica aliquota decrescente sull’intero importo della pensione. Sebbene nel 2022 ci sia stato un breve ritorno al sistema degli “scaglioni”, in questi ultimi due anni è stato ripristinato quello “a fasce” con conseguente perdita di reddito significativa per i pensionati.

È stato il governo Draghi, nella Legge di Bilancio per il 2022, dopo oltre 3 anni di rinvii, a ripristinare le rivalutazioni delle pensioni adottata dal governo Prodi nella manovra finanziaria del 1996, che prevedeva una rivalutazione per “scaglioni” del 100% fino a 4 volte l’importo minimo, al 90% sulla quota da 4 a 5 volte il minimo e al 75% sulla quota di pensione sopra tale ultimo importo. Questa rivalutazione che, nel nostro sistema a ripartizione fa parte del patto tra lavoratori e Stato (pago i contributi sui redditi che si rivalutano all’inflazione e percepirò una pensione che si rivaluta anch’essa all’inflazione), è stata mantenuta fino al 2010 dai governi D’Alema, Amato e Berlusconi. Poi nel 2011, sono iniziati i tagli selvaggi: il “Salva Italia” del governo Monti, all’interno della riforma Fornero, che ha bloccato per il 2012 e il 2013 l’indicizzazione per tutte le pensioni superiori a 3 volte il minimo. In pratica, il c.d. governo dei tecnici ha rivalutato le pensioni di quelli che non avevano mai versato i contributi o ne avevano pagati pochi, ignorando gli altri che la pensione se l’erano pagata, a tal punto che la Corte Costituzionalecon la sentenza numero 70/2015, dichiarò incostituzionale quel blocco e il governo Renzi dovette intervenire per restituire, seppur parzialmente e in ritardo, una parte delle somme sottratte ai pensionati tra 3 e 6 volte il minimo. Successivamente, il governo Letta ha modificato il criterio degli scaglioni, che consentono alle pensioni la rivalutazione corrispondente a ciascuna quota di pensione, e ha introdotto la rivalutazione a “fasce”, prevedendone cinque, a ciascuna delle quali corrispondeva un’aliquota di rivalutazione (pari al 100% fino a 3 volte il minimo, al 90% da 3 a 4 volte, al 75% da 4 a 5 volte, al 50% da 5 a 6 volte e pari a zero sulle altre fasce di pensione). A differenza degli scaglioni, nel caso delle fasce, l’intera pensione si rivaluta però in base alla percentuale più bassa. Il successivo governo Renzi ha rivalutato solo le pensioni fino a 3 volte il minimo e per le altre solo per qualche punto percentuale, mentre il governo Gentiloni è stato più prodigo, lasciando le 5 fasce, ma con una rivalutazione maggiore.

Nel 2018 il governo Conte 1, pur di non tornare alla legge Prodi, così come prevedeva la Legge di Bilancio del 2016, portò le fasce da 5 a 7, con rivalutazione dell’intera pensione alla percentuale più bassa. Inoltre, non si è limitato a ridurre le rivalutazioni, ma, addirittura ha tagliato, senza alcun criterio, le pensioni dei cosiddetti “pensionati d’oro” (c.d. contributi di solidarietà), che avevano il solo torto di avere pensioni sopra i 100mila euro lordi (meno di 60mila netti); alla maggior parte di questi 36.000 sfortunati, se si fosse applicato il metodo di calcolo contributivo, vantato da Conte, si sarebbe dovuto addirittura aumentare la pensione! In questo caso la Consulta, smentendo sé stessa, ha detto che dichiarato legittimi i tagli, salvo ridurre il periodo dei tagli proposti.

Per il 2025, nella legge di bilancio non è stata confermata la proroga del meccanismo di rivalutazione per fasce introdotto per il biennio 2023-24, che ritorna quindi al sistema a scaglioni Prodi/Draghi. L’indice provvisorio di rivalutazione delle pensioni per il 2025 è pari al 0,8%, così come stabilito dal decreto interministeriale del 15 novembre 2024..

Quindi, la rivalutazione delle pensioni negli ultimi anni ha seguito uno schema progressivo, anziché proporzionale, con un’indicizzazione differenziata in base all’importo dell’assegno, per cui le pensioni più basse hanno ricevuto un adeguamento completo all’inflazione, mentre quelle di importo maggiore sono state rivalutate solo parzialmente.

Negli ultimi decenni, i vari Governi hanno giustificato le deroghe dal sistema “standard”, prima descritto, con diverse motivazioni per contenere la spesa pensionistica: dalla necessità di sostenere le pensioni più basse, all’introduzione di pensioni anticipate, fino alle pressioni internazionali.

Ma anche se le leggi di bilancio ancor oggi continuano a fare riferimento alla Legge n. 448/1998, nella realtà questa legge è stata disattesa da tempo. Da oltre vent’anni, infatti, altre norme hanno prevalso, soprattutto per quanto riguarda le pensioni superiori a 4 volte il minimo INPS. Questo ripetuto riferimento alla Legge n. 448/1998 è quantomeno irrilevante, perché il meccanismo applicato è stato completamente stravolto e la norma è stata costantemente modificata nelle percentuali di valorizzazione. Si procede mediante un sistema normativo arbitrario, pressoché senza limiti prestabiliti, perché tempo e misure sono affidate alla sola discrezionalità del Governo di turno che, anno dopo anno, stabilisce se e in che misura ai pensionati con trattamenti superiori a 4 volte il minimo possa essere concesso l’adeguamento pensionistico.

È pur vero che sono passati molti anni dalle promesse e dagli accordi del 1998, ma neppure il protocollo firmato tra Governo e Parti Sociali del 28 settembre 2016 è stato rispettato. In tale accordo era stato stabilito che sarebbe stato ripristinato il meccanismo della Legge n. 388/2000 a partire dal 2019, prevedendo anche il ritorno al sistema di perequazione per “scaglioni di importo” e l’abbandono di quello basato sulle “fasce di importo”. Ma nessuno si è fatto carico di far rispettare questo accordo. Lo sforzo massimo è stato quello di mettere al riparo le pensioni fino a 4 volte il minimo, pensioni che riguardano 12.550.000 pensionati su 16.100.000, il 77,9% del totale.

Chi sta pagando il prezzo di questa situazione sono 3.550.000 pensionati. Una minoranza, dunque, che viene sistematicamente discriminata dopo aver pagato per una vita intera elevati contributi per guadagnarsi una pensione più dignitosa. Questo modo di operare dei Governi viene sostenuto da una narrativa ingiusta, e soprattutto ostile, che dipinge i titolari di pensioni medio-alte come “privilegiati”. Ormai le pensioni più elevate sono raccontate come un disvalore sociale. In realtà questi pensionati sono vittime di un trattamento discriminatorio e continuano a subire disposizioni ingiuste. 

E veniamo ai giorni nostri. Il sistema di perequazione delle pensioni introdotto per gli anni 2023 e 2024 è il peggiore mai applicato. Il Governo ha infatti deciso di passare da tre “scaglioni” a sei “fasce”. Questa drastica riduzione dell’indicizzazione, giustificata come una misura necessaria per combattere l’inflazione, ha ulteriormente accentuato la perdita del potere d’acquisto delle pensioni.

Come si concilia tutto questo con i principi di equità e di non discriminazione che leggiamo nella Costituzione? Sappiamo bene che la maggior parte dei ricorsi contro le deroghe dei Governi al sistema “standard” è stata respinta dalla Corte Costituzionale che, utilizzando il criterio del bilanciamento complessivo degli interessi costituzionali, ha, di fatto, sostenuto le ripetute misure depressive dei Governi, legittimando il sacrificio degli interessi dei pensionati. 

        Fin dalla sentenza n. 26 del 1980 la Corte aveva affermato che proporzionalità (art. 36 Cost.) e adeguatezza (art. 38, 2° co., Cost.) dei trattamenti pensionistici non devono sussistere soltanto al momento del collocamento a riposo, “ma vanno costantemente assicurate anche nel prosieguo, in relazione ai mutamenti del potere d’acquisto della moneta”, senza che ciò comporti un’automatica ed integrale coincidenza tra il livello delle pensioni e l’ultima retribuzione, poiché è riservata al legislatore una sfera di discrezionalità per l’attuazione, anche graduale, dei termini suddetti (v.,ex plurimis, sentenza n. 316/2010). Nondimeno, dal canone dell’art. 36 Cost. “consegue l’esigenza di un costante adeguamento dei trattamenti di quiescenza alle retribuzioni del servizio attivo” (v. sentenza n. 501 del 1988 e, fra le altre, la sentenza n. 30 del 2004).

        Già la sentenza n. 316 del 2010, pur dichiarando legittima l’interruzione della rivalutazione per le prestazioni eccedenti otto volte il minimo, per il solo anno 2008, prevista dall’art. 1, co. 19, della legge 24.12.2007 n. 247, aveva indirizzato un monito al legislatore, avvertendo che la sospensione a tempo indeterminato del meccanismo perequativo o la frequente reiterazione di misure atte a paralizzarlo, entrerebbero in collisione con gli invalicabili principi di ragionevolezza, proporzionalità ed adeguatezza, affermando, infatti, che “ le pensioni, sia pure di maggiore consistenza potrebbero non essere sufficientemente difese in relazione ai mutamenti del potere di acquisto della moneta”.

        Inoltre, la sentenza n. 223 del 2012, pur riconoscendo che la gravità della situazione economica che lo Stato deve affrontare può giustificare anche il ricorso a strumenti eccezionali con la finalità di contemperare il soddisfacimento degli interessi finanziari con la garanzia dei servizi e dei diritti dei cittadini, aveva precisato, tuttavia, che ciò deve avvenire nel rispetto del principio fondamentale di eguaglianza dei cittadini e di solidarietà economica, anche modulando diversamente un “ universale” intervento impositivo, stante la natura tributaria della decurtazione patrimoniale operata (v., al riguardo, anche le citate sentenze n. 141 del 2009, n. 335 e n. 64 del 2008, n. 334 del 2006 e n. 73 del 2005), in violazione del principio della parità del presupposto d’imposta economicamente rilevante, di cui agli artt. 3 e 53 della Costituzione.  

        Il modello dell’indicizzazione decrescente in base all’importo dell’assegno pensionistico era stato già introdotto, per gli anni successivi al 2013, dalla legge n. 147 del 2013, il cui art. 1, comma 483, lo aveva applicato, per il periodo 2014-2016, a tutti i trattamenti pensionistici, ancora una volta salvaguardando integralmente solo quelli pari o inferiori a tre volte il trattamento minimo INPS, con un meccanismo uscito indenne dalle censure di illegittimità costituzionale pure sollevate (sentenza n. 173 del 2016) e quindi prorogato, in forma sostanzialmente invariata, fino al 2018 dalla legge n. 208 del 2015.

        In seguito, l’art. 1, comma 260, della legge n. 145 del 2018, per il periodo 2019-2021, riconobbe la rivalutazione automatica mediante un modulo del tutto analogo a quello oggetto del presente giudizio: ferma la rivalutazione integrale dei trattamenti pensionistici pari o inferiori a tre volte il trattamento minimo INPS, gli indici vennero ridotti al 97 per cento (per gli assegni pari o inferiori a quattro volte il minimo), al 77 per cento (per quelli tra quattro e cinque volte la suddetta soglia), al 52 per cento (per quelli tra cinque e sei volte il limite INPS), al 47 per cento (per quelli tra sei e otto volte il minimo INPS), al 45 per cento (per quelli tra otto e nove volte il livello minimo), per giungere, infine, al 40 per cento riconosciuto alle pensioni complessivamente superiori a nove volte il trattamento minimo INPS.

        Nel frattempo, l’art. 1, comma 478, della legge n. 160 del 2019 aveva introdotto una nuova regola generale della rivalutazione pensionistica, destinata a operare dal 1° gennaio 2022. A partire da tale data, si è previsto che l’indice di rivalutazione automatica delle pensioni venisse applicato per scaglioni di importo dei trattamenti pensionistici complessivi: a) nella misura del 100 per cento per quelli fino a quattro volte il trattamento minimo INPS; b) nella misura del 90 per cento per quelli compresi tra quattro e cinque volte tale soglia; c) nella misura del 75 per cento per quelli superiori a cinque volte il suddetto limite minimo.

        Ciononostante, la disposizione oggi censurata (art. 1, comma 309, della legge n. 197 del 2022), in origine destinata a operare per il biennio 2023-2024, ma poi modificata dall’art. 1 della legge n. 213 del 2023, che ne ha ridotto l’ambito applicativo al solo anno 2023 (comma 134), ha riprodotto, per il 2024, il medesimo meccanismo, a parte un’ulteriore riduzione al 22 per cento (rispetto al 32 per cento vigente per il 2023) dell’indice di rivalutazione dei trattamenti pensionistici superiori a dieci volte quello minimo.

        Di fronte a tale quadro complessivo di tagli e ripetuti blocchi o marcate riduzioni della perequazione delle pensioni, si rivelano del tutto inaccettabili le giustificazioni dianzi fornite dalla Corte Costituzionale, in merito alla ragionevolezza delle scelte discrezionali operate dal legislatore nei provvedimenti oggi all’esame, circa la mancata proporzionalità (ex art. 36, 1° co, Cost.) ed adeguatezza (ex art. 38, 2° co., Cost.) delle pensioni scrutinate,oltre che l’asserita temporaneità o saltuarietà dei blocchi o riduzioni delle rivalutazioni delle medesime.

Del resto, lo stesso giudice ammette che “l’art. 1, comma 478, della legge n. 160 del 2019 ha già dettato una regola che, in ossequio alla durata indeterminata espressamente conferitale, dovrebbe essere interessata con estrema prudenza da cambiamenti improvvisi, incidenti in senso negativo sui comportamenti di spesa delle famiglie” ed inoltre, ammette che “il legislatore possa – melius debba – tener conto della perdita subita , nel calibrare la portata di eventuali successive misure incidenti sull’indicizzazione dei trattamenti pensionistici”.

        Del pari, dal quadro macroeconomico esaminato non risulta un’eccezionale emergenza finanziaria, che giustifichi i tagli medesimi, che peraltro riguardano essenzialmente solo i pensionati, venendo in rilievo “per la prima volta una manovra di bilancio espansiva e in deficit”, nell’ambito della sospensione, a partire dal mese di marzo 2020, ma più volte prorogata, delle “regole del Patto di Stabilità a livello dell’UE”.

Inoltre, nella sentenza in esame si individuano anche ulteriori interventi, che la misura in esame contribuirebbe a finanziare, estranei al circuito previdenziale, rientranti nel più ampio settore “lavoro, famiglia e politiche sociali”, quali la maggiorazione del 50 per cento, a decorrere dal 1° gennaio 2023, dell’assegno unico universale, l’incremento dell’indennità per congedo parentale, il riordino delle misure di sostegno alla povertà e dirette all’inclusione lavorativa, misure che andrebbero finanziate con la fiscalità generale, come, del resto, anche quelle del circuito previdenziale, quali la proroga di istituti che favoriscono il pensionamento anticipato, come la cosiddetta “quota 103”, l’indennità cosiddetta “ape sociale” e la cosiddetta “opzione donna”, alle quali viene aggiunto il sussidio una tantum per le pensioni minime, rientrante, tra l’altro, nella materia dell’ assistenza sociale.

Invero, l’art.1, comma 309, della legge n. 197 del 2022 si pone in contrasto con gli artt. 3 e 53 della Costituzione con l’introduzione di una misura volta a realizzare un introito per l’Erario sotto forma di un risparmio realizzato forzosamente mediante la compressione di un diritto (quale quello all’adeguamento dei trattamenti ), attribuito in via tendenziale ai pensionati dagli artt. 36 e 38 della Costituzione, introducendo in via definitiva una misura peggiorativa del trattamento pensionistico in precedenza spettante “con la conseguente irrimediabile vanificazione delle aspettative legittimamente nutrite dal lavoratore per il tempo successivo alla cessazione della propria attività lavorativa”.

        Non è sufficiente, infatti, il generico richiamo alla salvaguardia dell’equilibrio della finanza pubblica (artt. 81 e 97 della Costituzione), a giustificare qualunque imposizione diretta o indiretta di prestazioni patrimoniali da parte del legislatore, se contraria ai principi costituzionali di eguaglianza (art. 3 Cost.) ed ai principi di universalità e progressività del prelievo fiscale (art. 53 Cost.), ricorrente anche in questo caso, essendo la previdenza sociale compito essenziale dello Stato, che lo esercita attraverso un suo ente strumentale (l’I.N.P.S.), che funge da suo sostituto di imposta (v. art .38, 3° comma, 2° inciso, Cost.). Infatti, lo Stato provvede con le sue finanze a garantirne il pareggio di bilancio. Tra l’altro, secondo i dati forniti dal medesimo istituto la sua gestione finanziaria di competenza ha evidenziato per l’anno 2023 un aumento del 4,4% delle entrate correnti, grazie,tra l’altro, ad una crescita delle entrate contributive pari a 269.152 milioni, con un aumento di 13.014 milioni(+5,1%) rispetto al dato accertato nell’esercizio precedente (256.138 milioni). Neppure può essere invocato il principio del pareggio di bilancio, come costituzionalizzato dalla legge costituzionale 20.4.2012, n. 1, perché altrimenti lo Stato non potrebbe essere mai chiamato a rispondere con i fondi di bilancio dei debiti o dei danni nei confronti dei propri creditori o danneggiati. Al contrario, non vi può essere alcuna violazione delle nuove norme costituzionali sul pareggio di bilancio (c.d. fiscal compact: v.artt. 81 e 97 Cost. novellati), in quanto al pagamento o alla restituzione delle somme dovute può essere sempre fatto fronte con l’apposito fondo di riserva per le spese impreviste, indicato nel bilancio dello Stato. Inoltre, il Ministro dell’Economia, se riscontra che l’ottemperanza a sentenze definitive di organi giurisdizionali o della Corte Costituzionale ostacoli il conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica, ha il dovere di assumere in breve tempo le iniziative legislative necessarie ad assicurare il rispetto del comma 3 dell’art. 81 della Costituzione. Nè, se fossimo sul piano strettamente civilistico, potrebbe invocarsi il principio dell’eccessiva onerosità sopravvenuta, in quanto si tratterebbe nei casi in esame di contratti istantanei, a prestazioni corrispettive, ad esecuzione differita soltanto della prestazione a carico dello Stato[1], in cui occorre, proprio per tale motivo, procedere semplicemente alla rivalutazione – ossia all’adeguamento al costo della vita calcolato sul valore medio dell’indice ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati (v. art. 11, co. 1, del d.l. 30.12.1992 n. 503) –, stabilita, tra l’altro, proprio con legge dello stesso Stato debitore.

        Inoltre, la regola generale della dinamica rivalutativa delle pensioni, introdotta a far data dal 1° gennaio 2001, dall’art. 69, comma 1, della legge n. 388 del 2000 e sostituita, a partire dal 1° gennaio 2022, dall’art. 1, comma 478, della legge n. 160 del 2019 (che ha elevato la quota di perequazione completa al 100% per gli scaglioni di importo dei trattamenti pensionistici fino a quattro volte il trattamento minimo INPS, fermo restando tutti gli altri scaglioni di importo per tutte le pensioni), fondata su un algoritmo statistico/attuariale, che prevede un aumento proporzionale decrescente dell’aliquota di adeguamento all’inflazione su tre scaglioni di importo per ogni pensione (che oltretutto appare del tutto arbitrario,  perché non prevede una rivalutazione completa per tutte le pensioni), è stato sostituito nel caso in esame con un sistema per fasce decrescenti di importo dei trattamenti pensionistici, nei quali, a differenza degli scaglioni, l’intera pensione si rivaluta però in base alla percentuale più bassa.

In tal modo da un criterio oggettivo e proporzionale decrescente di adeguamento all’inflazione, introdotto a far data dal 1° gennaio 2001, dall’art. 69, comma 1, della legge n. 388 del 2000 e parzialmente modificato, solo per il primo scaglione del 100%, a partire dal 1° gennaio 2022, dall’art. 1, comma 478, della legge n. 160 del 2019, applicabile ad ogni pensione, si è passati, con tutta evidenza, ad una discriminazione dei pensionati in base all’importo della pensione

        Pertanto, la mancata perequazione in esame si risolve, di fatto e in maniera ancora più evidente, in una chiara imposizione tributaria, limitata ad una sola categoria di contribuenti (i pensionati) , in violazione degli artt. 3 e 53 della Costituzione, oltre che degli artt. 36 e 38 della Costituzione, che prevedono una proporzionalità ed un adeguamento dei trattamenti pensionistici alle retribuzioni ricevute dai pensionati alla fine della loro attività lavorativa, avendo la pensione natura giuridica di una retribuzione differita, come sempre riconosciuto dal Giudice delle Leggi (v., da ultimo, sentenza n. 70 del 2015 e anche la sentenza in esame).

Si verifica, infatti, una palese irragionevolezza del provvedimento censurato ed un’irrazionalità dello stesso per eccedenza del mezzo rispetto al fine, dovendo provvedersi ad esigenze, quali la “ contingente situazione finanziaria”, richiamata dal legislatore, mediante la fiscalità ordinaria, secondo il disposto di cui all’art. 53 Cost.. Spetta, inoltre, al legislatore di individuare idonei meccanismi che assicurino la perdurante adeguatezza delle pensioni all’incremento del costo della vita. Anche, la sentenza n. 70 del 2015, nel dichiarare illegittima la normativa di cui all’art. 24, comma 25, del d.l. n. 201 del 2011, si è richiamata ai principi di proporzionalità fra pensione e retribuzione, di cui all’art. 36 Cost. (dato che la prima costituisce il prolungamento della retribuzione in costanza di lavoro e il trattamento retributivo percepito durante l’attività lavorativa), ed a quello di adeguatezza della prestazione previdenziale, di cui all’art. 38 Cost., perché l’assenza di rivalutazione impedirebbe la conservazione nel tempo del valore della pensione, alterando in tal modo il principio di eguaglianza e ragionevolezza, causando un irrazionale discriminazione in danno della categoria dei pensionati, considerato, altresì, il difetto di qualsivoglia modalità di recupero delle somme oggetto di riduzione della perequazione per il biennio 2023-2024. Pertanto, il criterio di ragionevolezza, così come delineato dalla giurisprudenza costituzionale, in relazione ai principi contenuti negli artt. 36, 1° co., e 38, 2° co., della Costituzione, circoscrive la discrezionalità del legislatore e vincola le sue scelte all’adozione di soluzioni coerenti con i parametri costituzionali.

        In conclusione, la misura adottata si configura – a nostro avviso – contrariamente sul punto anche a quanto sostenuto dalla sentenza n. 70 del 2015 – come una prestazione patrimoniale di natura sostanzialmente tributaria, lesiva del principio di universalità dell’imposizione a parità di capacità contributiva, in quanto posta a carico di una sola categoria di contribuenti (i pensionati).Inoltre, nell’imporre ad essi di concorrere alla spesa pubblica, non in ragione della propria capacità contributiva, essa viola il principio di eguaglianza (artt. 3 e 53 della Costituzione). La perequazione automatica delle pensioni, infatti, è uno strumento di natura tecnica, volto a garantire nel tempo il rispetto del criterio di adeguatezza, di cui all’art. 38, 2° co., Cost., e si presta contestualmente a innervare il principio di sufficienza della retribuzione, di cui all’art. 36 Cost., principio applicato, per costante giurisprudenza della Corte Costituzionale ai trattamenti di quiescenza, intesi quali retribuzioni differite (v., fra le altre, sentenze n. 208 del 2014 e n. 116 del 2013).

        Inoltre si configura nella fattispecie in esame una lesione del principio di uguaglianza (art. 3 Cost.) per discriminazione rispetto ai lavoratori dipendenti pubblici e privati, ai quali i CC.LL. assicurano un adeguamento automatico e annuale all’inflazione, come rilevato dalle parti private dei giudizi in esame (rilievo che non ha fatto parte del giudizio costituzionale perché, per “il principio della corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato”, non ha formato oggetto di rilievo nelle ordinanze dei giudici di rinvio), oltre che di discriminazione nei confronti di altri contribuenti, prevedendosi nella medesima legge di bilancio un’estensione della “flat tax” per i lavoratori autonomi con un aliquota fiscale al 15%, oltre alle ben minori aliquote già previste per i percettori di rendite finanziarie e immobiliari.

Infatti, è vero che con “il protocollo su politica dei redditi, inflazione e costo del lavoro” del 31 luglio 1992, siglato dal Governo Amato e dalle Parti sociali, è stato abolito il meccanismo della cosiddetta “scala mobile” (l’indicizzazione automatica delle retribuzioni dei lavoratori pubblici e privati all’inflazione rilevata dall’ISTAT), ma esso è stato sostituito con l’indennità di contingenza, confluita in un’unica voce retributiva inclusa nel minimo contrattuale per ogni livello di inquadramento dei CCNL e aggiornata con cadenza annuale.

Nel terzo trimestre del 2024, la crescita delle retribuzioni contrattuali è risultata superiore a quella dei prezzi al consumo di poco più di due punti percentuali, proseguendo il graduale recupero del potere d’acquisto.

Infatti, l’indice delle retribuzioni contrattuali orarie a settembre 2024 ha segnato un aumento dello 0,2% rispetto al mese precedente e del 3,7% rispetto a settembre 2023; l’aumento tendenziale è stato del 4,6% per i dipendenti dell’industria, del 4,1% per quelli dei servizi privati e dell’1,6% per i lavoratori della pubblica amministrazione.

Inoltre, in base a quanto stabilito dall’art. 429 del codice di procedura civile, quando un giudice riconosce il diritto di un lavoratore al pagamento di importi relativi a crediti maturati nell’ambito di un rapporto di lavoro, deve altresì riconoscere al lavoratore il diritto al pagamento degli interessi maturati, nonché della rivalutazione del credito, ex art. 1284, 4°co.,c.c.

Ciò significa, in buona sostanza, che il lavoratore ha diritto di ricevere un importo che abbia un valore (ovvero un potere di acquisto) non inferiore rispetto a quello che detto importo aveva quando il credito è maturato, nonché gli interessi legali.

Grazie a tale norma, il lavoratore che, magari solo a distanza di anni, riusciva a recuperare gli importi a lui dovuti, riceveva un capitale che non aveva perso, con il tempo, il suo valore e, in aggiunta, gli interessi nel frattempo maturati, che costituivano una sorte di risarcimento, per aver dovuto attendere del tempo prima di entrare in possesso di quanto gli spettava.

Un regime analogo vigeva anche con riferimento ai crediti previdenziali (quali, per esempio, i crediti pensionistici), e ciò sino a quando, nel 1991, è stata emanata una norma (L. 412/91) in forza della quale la perdita di valore del credito doveva ritenersi, in sostanza, già compensata dal riconoscimento degli interessi, con conseguente venir meno della possibilità di cumulare interessi e rivalutazione.

        Nel dicembre del 1994 era stata emanata una nuova disposizione di legge (art. 22 L. 724/94) che, sanciva il divieto del cumulo tra interessi e rivalutazione anche per i crediti di lavoro.

        Tuttavia la Corte Costituzionale con sentenza n.459 del 2000 ha dichiarato l’illegittimità di tale norma, per contrasto con gli artt.3 e 36 Cost., nella parte in cui escludeva la rivalutazione monetaria per i crediti di natura retributiva nel solo settore privato, prevista dall’art. 429 c.p.c. come deterrente nei confronti del datore di lavoro privato, per evitare che potesse lucrare sul ritardo per investire le somme dovute al lavoratore, mentre nel settore del pubblico impiego, a dire della Corte, non vi sarebbero state le ragioni poste alla base dell’art. 429 c.p.c. nei confronti del datore di lavoro privato e, comunque, avrebbero dovuto essere tutelati i preminenti interessi della spesa pubblica. Pertanto, non è ammesso il cumulo fra interessi e rivalutazione, e potranno calcolarsi solo gli interessi legali nell’ambito del pubblico impiego e , altresì,per i crediti di natura previdenziale ed assistenziale, divieto già previsto per questi ultimi crediti anche all’art. 16, 6° co., della legge n. 412/91, per cui sulle somme erogate è dovuto solo il maggior importo fra interessi legali e rivalutazione (v. Cass. 19824/13).

        Le norme fondamentali della nostra Costituzione, tuttavia, affermano il principio di solidarietà sociale, di eguaglianza sostanziale, di tutela della retribuzione sufficiente, di tutela dei soggetti totalmente o parzialmente privi di capacità lavorativa. Ne consegue che il divieto di liquidare anche la rivalutazione monetaria nei crediti previdenziali ed assistenziali e nei crediti del pubblico dipendente è in contrasto con gli artt. 2, 3, 24, 36 e 38 Cost., sia in ragione della violazione del sistema protezionistico, relativo alla retribuzione (e, conseguentemente, alla pensione la cui rivalutazione, nel nostro sistema a ripartizione, fa parte del patto tra lavoratori e Stato : pago i contributi sui redditi che si rivalutano all’inflazione e percepirò una pensione che si rivaluta anch’essa all’inflazione) sufficiente, sia in quanto sorretta da esigenze di contenimento della spesa pubblica, in un contesto ordinamentale di radicata tolleranza nei confronti di chi sottrae deliberatamente alla collettività ingentissime risorse (v. vari provvedimenti di condono e agevolazione fiscale per imprenditori e lavoratori autonomi, previsti anche nel bilancio di previsione in esame), da sole sufficienti a consentire la piena realizzazione dei principi di solidarietà ed eguaglianza sostanziale, previsti dalla Parte Prima della nostra Costituzione.

        In sintesi: 1) per i lavoratori privati è ammesso il cumulo degli interessi e della rivalutazione; 2) per i lavoratori pubblici è escluso il cumulo degli interessi e della rivalutazione, ma la rivalutazione (attualmente “indennità di contingenza”) è inclusa nel minimo contrattuale per ogni livello di inquadramento dei CCNL e aggiornata con cadenza annuale; 3) per i pensionati, sia pubblici che privati, appartenenti alla previdenza obbligatoria, era dovuto solo il maggior importo fra interessi legali e rivalutazione dall’art. 16, 6° co., della legge n. 412/91(v. Cass. 19824/13), ma tale regola è stata più volte modificata con le varie leggi di bilancio e da ultimo dall’art. 1, comma 478, della legge n. 160 del 2019, oggi in esame, per fare cassa a spese della categoria più debole, ossia quella dei pensionati, anziché rivolgersi alla fiscalità generale.

        In conclusione, misure destinate a produrre effetti pregiudizievoli su diritti soggettivi perfetti, attinenti a rapporti di durata, come quelli indicati in sentenza, possono ritenersi rispettose del canone della ragionevolezza solo se “le decurtazioni previste” siano imposte da esigenze straordinarie di contenimento della spesa pubblica e presentino un’efficacia temporale limitata e circoscritta “ che non modifichi a regime i diritti incisi” e che sia “strettamente preordinata a coprire un arco temporale pari a quello al quale sono riferite le esigenze di bilancio, che hanno determinato (e giustificato) l’intervento.

        Invece,  anche nel caso in esame : 1) non vi sono specifiche esigenze di contenimento della spesa pubblica; 2) si sommano blocchi o raffreddamenti ripetuti della rivalutazione con l’effetto di trascinamento delle perdite subite, dato che i nuovi provvedimenti restrittivi si riferiscono al valore nominale e non reale delle pensioni, incise dalle precedenti decurtazioni; 3) si registra una disparità di trattamento rispetto ai lavoratori “ancora in servizio”, per i quali la rivalutazione avviene automaticamente ed annualmente attraverso la CCNL, in violazione del principio di non discriminazione in base all’età, ex art. 3 Cost.; 4) la limitata indicizzazione delle pensioni superiori ad un certo importo si configura come prestazione patrimoniale di natura tributaria, posta a carico di una sola categoria di contribuenti, in violazione dei principi di uguaglianza (art. 3 Cost.) e di universalità e progressività del prelievo in base alla capacità contributiva di ciascuno (art. 53 Cost.).

        Purtroppo, gli ultimi due essenziali aspetti, prospettati dalle parti private dei giudizi di rinvio, non hanno formato oggetto del giudizio di legittimità costituzionale per il rispetto del “principio di corrispondenza fra il chiesto ed il pronunciato”.

Ciò premesso, il diritto oggettivo deve rispettare i diritti innati o acquisiti e, cioè,i diritti soggettivi relativi a soggetti determinati (diritti di singoli individui e diritti collettivi di categorie di soggetti). Al contrario, può regolare diversamente diritti soggettivi appartenenti ad una generalità di soggetti (c.d. diritti soggettivi generali, di cui lo Stato ne ha la rappresentanza necessaria) e, quindi, indeterminati e sempre mutevoli. Questa regola generale di ogni sistema giuridico si rende necessaria per il rispetto del principio dell’irretroattività della legge, sul quale si basa il principio fondamentale della certezza del diritto.

Inoltre, la Costituzione, che è la legge suprema di ogni ordinamento democratico, come quello italiano, non contiene una graduatoria dei diritti soggettivi individuali o collettivi, che, quindi, devono considerarsi tutti uguali.

Per questo stesso motivo, non si può creare un nuovo diritto soggettivo individuale (o collettivo) a discapito di un altro (ad es., il diritto all’aborto, al posto del diritto alla vita, che – come è noto – inizia dal concepimento).

Tuttavia, anche nell’attività più strettamente pubblicistica (legislativa o amministrativa), destinata a tutelare interessi generali della collettività, possono incontrarsi diritti soggettivi di singoli soggetti determinati, operanti nel medesimo settore pubblico ed anche in tal caso, quindi, tali situazioni soggettive (diritti soggettivi o aspettative giuridiche) non possono essere sacrificate dalle attività, sia legislative, che amministrative.

Peraltro, allorché lo Stato si occupa di interessi generali, in rappresentanza dei diritti generali di tutti i cittadini, fermo restando la libertà del potere legislativo nella scelta dei fini da perseguire (ossia nel merito politico dell’interesse privilegiato) , le scelte effettuate debbono essere sindacate dalla Corte Costituzionale sulla base del principio della ragionevolezza, derivante dal principio generale di uguaglianza, ossia di non discriminazione fra categorie uguali o di arbitrari livellamenti fra categorie differenti, e della congruità e della coerenza della decisione adottata per l’interesse pubblico, liberamente prescelto, nonché del giusto bilanciamento effettuato fra gli interessi pubblici coinvolti nell’ambito del sistema normativo vigente, ma non deve interferire nel merito delle scelte politiche del legislatore su un piano preventivo generale.

Da quanto detto, emerge che non possono essere eliminati o modificati diritti soggettivi (individuali o collettivi), innati in base alla carta costituzionale od altro ordinamento sovranazionale o internazionale o successivamente acquisiti in base ai singoli accordi individuali o collettivi.

In sede di Assemblea Costituente, l’orientamento prevalente era quello di equiparare la giurisdizione di costituzionalità alla giurisdizione amministrativa (G. Codacci Pisanelli)[2], preferendo una visione dell’ordinamento antropocentrica, finalizzata alla tutela effettiva dei cittadini, a quella statocentrica, indirizzata alla tutela della legalità costituzionale in senso oggettivo (tutela della legalità dell’ordinamento nel suo complesso). Di qui, la potenziale equiparazione dei vizi tipici degli atti di parte sottoposti, rispettivamente, al giudice amministrativo o alla Corte Costituzionale. Quindi, anche per il legislatore poteva parlarsi di vizio di eccesso di potere nell’esercizio della sua attività discrezionale, motivato in ragione di uno scostamento da un fine predeterminato, cui la legge avrebbe dovuto necessariamente attenersi.

Secondo questa impostazione dottrinaria, il vizio di eccesso di potere integra una nozione della discrezionalità di tipo amministrativistico, come sorpassamento dei limiti posti all’esercizio del potere normativo del Parlamento. L’eccesso di potere, quindi, viene rappresentato come un vizio della causa, ossia come sviamento di potere, che si ha quando l’interesse perseguito dalla legge contrasti con quello imposto dalla Costituzione o quando dalla legge emerga un’assoluta incongruenza tra la norma dettata ed il fine di pubblico interesse, che doveva perseguire.

Pertanto, l’attività legislativa non è libera nei fini da perseguire in senso assoluto, costituendo piuttosto uno sviluppo o uno svolgimento della Costituzione, alla cui realizzazione deve conseguentemente ritenersi vincolata, anche a prescindere dalle finalità ad essa specificamente assegnate da puntuali, singole disposizioni. Al riguardo, infatti, una autorevole dottrina [3]concepisce la Costituzione come una tavola di valori in sé compiuta (dotata di un immanente finalismo), unitariamente considerati, capace di porre vincoli oggettivamente conoscibili, anche all’attività legislativa. Pertanto, la discrezionalità legislativa esprime un limite funzionale di natura prevalentemente interna alla stessa attività di produzione normativa, nel caso in cui l’atto legislativo risulti vincolato al perseguimento di determinati fini pubblici.

In conclusione, le maggioranze parlamentari possono soltanto creare nuovi diritti soggettivi(individuali o collettivi), senza peraltro sacrificarne altri già acquisiti, o regolamentare diversamente i diritti generali di tutti i cittadini o di tutti i soggetti dell’ordinamento, di cui lo Stato ne ha soltanto la rappresentanza necessaria, secondo le sue scelte politiche in merito agli interessi generali rappresentati, purchè comunque vengano rispettati i principi e i precetti costituzionali degli interessi generali coinvolti nella loro azione di bilanciamento e, quindi, innanzitutto, il principio generale di ragionevolezza, conseguente al principio di uguaglianza (art 3 Cost.), ed i collegati principi di adeguatezza, coerenza,proporzionalità e congruità, volti ad impedire scelte arbitrarie e l’eventuale discrasia fra i fini perseguiti ed i mezzi impiegati nell’esercizio del potere discrezionale del Parlamento, trattandosi di rappresentanza di diritti generali di tutti i cittadini o soggetti di diritto dell’ordinamento giuridico.

        Invero, posto che il principio dell’accordo, “pacta sunt servanda”, è un principio fondamentale dello Stato democratico, valido non solo in ambito internazionale, ma anche in ambito interno, essendo anche la legge, come il contratto di diritto privato, frutto di un accordo, nella specie fra le forze maggioritarie presenti in Parlamento, in rappresentanza dei cittadini di ciascuno Stato[4], si rileva che il diritto alla pensione, sia in un rapporto di diritto pubblico, che di diritto privato, dà luogo ad un diritto soggettivo perfetto e incondizionato e, quindi, ad “un diritto quesito”, perché è disciplinato da un accordo fra il cittadino e lo Stato, concluso in base alle leggi vigenti al momento della sua conclusione, che non può essere mutato da leggi successive, perché il rapporto di lavoro (il primo dei diritti fondamentali, tutelato dall’art. 1 della Costituzione) si è ormai definitivamente esaurito e trasformato nel diritto alla liquidazione della pensione e del T.F.R., quali parti della retribuzione, il cui pagamento è stato soltanto differito per fini previdenziali nell’interesse esclusivo dei lavoratori[5].

Proprio in base alla mia teoria dell’accordo[6] si spiega il significato ed il valore di una Costituzione democratica. Infatti, la Costituzione è frutto di un accordo più generale dell’Assemblea costituente, in rappresentanza del popolo, che tiene insieme tutte le norme dell’ordinamento, formate da accordi successivi (leggi e contratti) nel quadro di una concatenazione verticale di accordi,che dà luogo alla Democrazia Sociale Costituzionale. [7]

 

CONCLUSIONI

 

        La pensione è “un diritto quesito”[8] (ed anzi ne è uno dei suoi maggiori esempi), perché si basa su un patto fra il cittadino e lo Stato, oramai concluso (assimilabile ad un contratto istantaneo a prestazioni corrispettive), in cui le prestazioni delle parti sono state già prestabilite in modo definitivo, compresa la futura rivalutazione monetaria dell’assegno pensionistico, essendo la sola controprestazione dello Stato, rateizzata e differita nel tempo, e nessuna norma costituzionale prevede che l’importo pattuito possa essere arbitrariamente ridotto, salvo che per imposizione fiscale personale generale, come qualunque altra fonte di reddito personale nel rispetto dei criteri costituzionali di universalità e di progressività dell’imposta, previsti dall’art. 53 della Costituzione.

        Quindi, la pensione è un diritto quesito e come tale “inviolabile”, tranne, ovviamente, che per la generale sottoposizione all’imposizione fiscale, come qualsiasi altra fonte di reddito personale.

        Invero, nessun dubbio può porsi nel comprendere il diritto alla pensione fra i diritti essenziali del nostro sistema democratico, riconosciuti espressamente come inviolabili dall’art. 2 della Costituzione, ormai estesi dalla dottrina e dalla giurisprudenza costituzionale ai c.d. diritti sociali e, più in particolare, ai diritti previdenziali (C. Cost. n. 64/1975), fra i quali la pensione ne costituisce l’esempio principe. La Corte Costituzionale, include, infatti, fra i diritti inviolabili (o fondamentali) anche i diritti sociali o di prestazione (es, al lavoro, alle prestazioni previdenziali).

        La dottrina prevalente (Lavagna, Mortati) ricomprende, infatti, nel concetto della c.d. Costituzione in senso materiale il complesso delle norme giuridiche non contenute nella Costituzione, ma in altre fonti, che, per la loro importanza e portata generale, devono ritenersi principi generali dell’ordinamento costituzionale e fra essi non può non comprendersi il diritto alla pensione, ormai acquisito con un patto definitivamente concluso fra il cittadino e lo Stato, che come tale non può essere rimesso unilateralmente in discussione con leggi più sfavorevoli di natura retroattiva, come stabilito in via generale dall’art. 11 delle preleggi al codice civile, che costituisce un principio fondamentale del nostro ordinamento giuridico costituzionale.

        Inoltre, la stessa Corte Costituzionale ha recentemente affermato che neanche l’equilibrio di bilancio può essere di ostacolo al riconoscimento dei diritti acquisiti, definiti incomprimibili (v. sentenza 16 maggio 2016, n. 275).

        Di conseguenza, è illegittima ogni modifica della pensione liquidata con il suddetto patto definitivo fra il cittadino e lo Stato, sia consistente in un ricalcolo della stessa con il sistema contributivo, non ancora vigente all’epoca della liquidazione della pensione, sia in una mancata rivalutazione, espressamente pattuita, quale debito differito per fini previdenziali dello stesso percettore, sia infine, nell’imposizione di un contributo di solidarietà, che si configurerebbe come una evidente imposizione fiscale illegittima, contraria ai principi di universalità e progressività, che devono presiedere ad ogni imposta fiscale personale, colpendo ingiustificatamente solo una particolare categoria di redditi della persona, ossia quella dei pensionati, in base ad un malinteso principio di solidarietà sociale, che, ex art. 2 della Costituzione, riguarda tutti i cittadini e non solo la categoria, peraltro più debole, dei pensionati.

        Invero, il generale principio di solidarietà sociale, previsto dall’art. 2 Cost., deve riguardare tutta la collettività, in relazione alla capacità contributiva di ciascuno (art. 53 Cost.), e, non, per quanto riguarda il settore in esame, il taglio delle pensioni più alte rispetto a quelle di minor importo – presenti o future -, con l’imposizione di contributi di solidarietà o blocchi o riduzioni illegittimi delle indicizzazioni delle pensioni, considerato che ogni rapporto di lavoro ha una sua storia particolare, che si è ormai esaurita nel tempo.

        Quindi, è proprio il contrario di quanto ritenuto da alcune forze sociali e politiche, anche di Governo, sul principio di solidarietà, perchè esso prevede che siano, invece, i giovani attivi a dover sostenere le pensioni dei pensionati più anziani, categoria demograficamente più debole nel mondo del lavoro, e non l’inverso.

        Inoltre, in base ai principi costituzionali in materia tributaria, l’unica imposizione costituzionalmente legittima è quella che:1) o è generale perché corrisponde a beni e servizi comuni (diritti generali), che offrono un bene o sevizio pubblico, di uso indifferenziato; 2) o è particolare (per persona o categorie di persone), se corrisponde ad un servizio o bene pubblico, di uso differenziato (ad es., tassa o contributo, a) di miglioria – o extra-redditi –, se per l’attività statale il privato vede incrementare i suoi redditi, o b) di utenza, se nascono da una spesa sostenuta dall’Ente pubblico per una migliore utilizzazione delle opere realizzate).

        Nel caso dei c.d. contributi di solidarietà o delle riduzioni progressive della perequazione, in tema di pensioni, invece, viene prelevata d’ufficio una parte della pensione senza alcuna contropartita di beni o servizi pubblici (cioè con l’imposizione di una sorta di liberalità coattiva), ma per sopperire a compiti di esclusiva spettanza dello Stato, (aumento di pensioni sociali e di pensioni minime o altre politiche attive di bilancio) da affrontare con la fiscalità generale, in base all’art. 53 della Costituzione, unica forma di solidarietà sociale, prevista dalla Costituzione.

        Invero, posto che il principio dell’accordo, “pacta sunt servanda”, è un principio fondamentale dello Stato democratico, valido non solo in ambito internazionale, ma anche in ambito interno, essendo anche la legge, come il contratto di diritto privato, frutto di un accordo, nella specie fra le forze maggioritarie presenti in Parlamento, in rappresentanza dei cittadini di ciascuno Stato[9], si rileva che il diritto alla pensione, sia in un rapporto di diritto pubblico, che di diritto privato, dà luogo ad un diritto soggettivo perfetto e incondizionato e, quindi, ad “un diritto acquisito”, perché è disciplinato da un accordo fra il cittadino e lo Stato, concluso in base alle leggi vigenti al momento della sua conclusione, che non può essere mutato da leggi successive, perché il rapporto di lavoro (il primo dei diritti fondamentali, tutelato dall’art. 1 della Costituzione) si è ormai definitivamente esaurito e trasformato nel diritto alla liquidazione della pensione e del T.F.R., quali parti della retribuzione, il cui pagamento è stato soltanto differito per fini previdenziali nell’interesse esclusivo dei lavoratori[10]; inoltre, esso, come lo stipendio, è, in linea di principio, insequestrabile, impignorabile ed incedibile.

        Infatti, secondo autorevole dottrina[11], il diritto alla pensione sorge al momento della costituzione del rapporto di impiego; tuttavia, essendo subordinato alla durata di questo e ad altre condizioni, è un diritto sottoposto a condizione, che, però, si trasforma in diritto perfetto, quando la pensione sia stata liquidata o quando l’impiegato abbia diritto al collocamento a riposo, in base al servizio e all’età raggiunta.

        È un principio fondamentale dello Stato di diritto ed, in particolare, dello Stato democratico, quello che vuole salvaguardare il principio della certezza del diritto e, cioè, l’affidamento dei cittadini alla sicurezza giuridica, da sempre considerato elemento fondante dello Stato di diritto e democratico di fronte ad abusi dei pubblici poteri, per evitare che i privati siano esposti all’eventualità che gli atti, che li riguardano, possano essere caducati “ab initio” in base ad una diversa valutazione di opportunità politica[12]. Ci troveremmo, in caso contrario, di fronte ad uno Stato autoritario e di fatto dittatoriale, che non rispetta l’autorità delle sentenze passate in giudicato ed i diritti acquisiti dai cittadini, in base ad accordi conclusi con l’Autorità amministrativa con atti vincolati, che hanno ormai definitivamente stabilito i loro effetti giuridici. Infatti, il decreto di liquidazione della pensione, è un atto di accertamento costitutivo del relativo diritto, che, pur avendo causa nel rapporto di lavoro è ad esso successivo, presupponendone la cessazione, e, come tale, non è un atto discrezionale, ma un atto vincolato (c.d. atto, rientrante nella categoria delle iscrizioni)[13], che si limita ad accertare i presupposti stabiliti dalle leggi del tempo della domanda di collocamento a riposo[14], per l’attribuzione del diritto alla pensione, e ad effettuare la determinazione del suo ammontare, in base al computo dei servizi riconosciuti o riconoscibili, supportati da atti ufficiali della P.A.. Pertanto, per coloro che hanno diritto al collocamento a riposo vale indefettibilmente il principio che solo le norme più favorevoli per i destinatari possono avere efficacia retroattiva.

        Da quanto detto, ne discende che il diritto alla pensione già maturata, in base alle leggi vigenti, costituisce “un diritto acquisito”, ossia un diritto sorto da un fatto acquisitivo valido per la legge precedente, fatto che la nuova legge non può qualificare in modo difforme dal passato, per farne derivare effetti giuridici diversi. Infatti, il relativo titolo di acquisto è assimil[15]abile – come si è detto-, a quello di un contratto di diritto privato, istantaneo a prestazioni corrispettive, ad esecuzione differita della sola prestazione da parte dello Stato per fini previdenziali nell’interesse del lavoratore, la cui prestazione è stata già eseguita con la sua attività lavorativa e le trattenute mensili del suo stipendio, mentre quella del datore di lavoro viene rateizzata per soli fini previdenziali nell’interesse esclusivo del lavoratore, assicurando, in tal modo, il suo adeguamento al mutato costo della vita nel corso del tempo rispetto al suo valore capitale iniziale.

        La pensione è, quindi, una retribuzione differita e come tale è soggetta, inoltre, a perequazione automatica e, quindi, quest’ultima fa parte del diritto acquisito della pensione. Infatti, nel nostro sistema a ripartizione essa fa parte del patto tra lavoratori e Stato : pago i contributi sui redditi che si rivalutano all’inflazione e percepirò una pensione che si rivaluta anch’essa all’inflazione.

        Come tale, la perequazione, quale accessorio necessario e connaturato della parte capitale della pensione, segue le regole generali sull’adeguamento del costo della vita, che vengono fissate in via generale dallo Stato, previo accertamento degli organi istituzionali, a tale scopo preposti (I.S.T.A.T.), con leggi specifiche, che peraltro già hanno operato, del tutto ingiustamente, una graduazione in base all’importo delle pensioni (art. 69 della Legge 23 dicembre 2000, n. 388 e art. 34, 1° comma, della Legge 23 dicembre 1998 n. 448), che non possono essere, altresì, via via modificate in percentuale variabile a seconda dell’importo delle pensioni o del tutto annullate per le pensioni più alte, in base ad asserite nuove esigenze di bilancio di risparmio di spesa (indicate, oltretutto, in modo del tutto generico e inoltre in contrasto con finalità di politiche attive di bilancio, di crescita e di sviluppo, nei settori più svariati della vita pubblica), da realizzare con le maggiori entrate derivanti da tagli arbitrari delle pensioni più alte, in quanto esse costituiscono dei debiti dello Stato verso i cittadini, che nell’ordinamento democratico lo stesso deve onorare integralmente, come qualunque altro soggetto, prima di ogni altra politica espansiva di bilancio, perché, per principio generale dell’ordinamento giuridico, l’adempimento dei doveri viene prima dell’espletamento dei diritti e dei poteri in tutto il sistema giuridico democratico.

        Infatti, la stessa Corte Costituzionale ha precisato che “deve essere comunque salvaguardata la garanzia di un reddito che non comprima le esigenze di vita cui era precedentemente commisurata la prestazione previdenziale” (sentenza n. 240 del 1994). Chiaro è, quindi, il collegamento che la stessa Corte ha fissato fra le singole pensioni ed il loro adeguamento automatico al costo della vita, senza quindi uno sganciamento dell’adeguamento del costo della vita dal valore capitale delle singole pensioni con la previsione di percentuali di adeguamento via via decrescenti dalle pensioni di minor importo a quelle più alte, in base ad un malinteso generalizzato significato restrittivo, del tutto arbitrario, del concetto di adeguamento delle pensioni, in base all’art. 38 della Costituzione, valido con riferimento alle pensioni minime e alle pensioni sociali, per assicurare il loro adeguamento, quantomeno alle esigenze di vita elementari.

        Non è sufficiente, infatti, il generico richiamo alla salvaguardia dell’equilibrio della finanza pubblica (artt. 81 e 97 della Costituzione), a giustificare qualunque imposizione diretta o indiretta di prestazioni patrimoniali da parte del legislatore, se contraria ai principi costituzionali di eguaglianza (art. 3 Cost.) ed ai principi di universalità e progressività del prelievo fiscale (art. 53 Cost.), ricorrente anche in questo caso, essendo la previdenza sociale compito essenziale dello Stato, che lo esercita attraverso un suo ente strumentale (l’I.N.P.S.), che funge da suo sostituto di imposta (v. art.38, 3° comma, 2° inciso, Cost.). Infatti, lo Stato provvede con le sue finanze a garantirne il pareggio di bilancio. Tra l’altro, secondo i dati forniti dal medesimo istituto la sua gestione finanziaria di competenza ha evidenziato per l’anno 2023 un aumento del 4,4% delle entrate correnti, grazie,tra l’altro,alla crescita delle entrate contributive pari a 269.152 milioni, con un aumento di 13.014 milioni(+5,1%) rispetto al dato accertato nell’esercizio precedente (256.138 milioni).Neppure può essere invocato il principio del pareggio di bilancio, come costituzionalizzato dalla Legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1, perché altrimenti lo Stato non potrebbe essere mai chiamato a rispondere con i fondi di bilancio dei debiti o dei danni nei confronti dei propri creditori o danneggiati. Al contrario, non vi può essere alcuna violazione delle nuove norme costituzionali sul pareggio di bilancio (c.d. fiscal compact: v. artt. 81 e 97 Cost. novellati), in quanto il Ministro dell’Economia, se riscontra che l’ottemperanza a sentenze definitive di organi giurisdizionali o della Corte Costituzionale ostacoli il conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica, ha il dovere di assumere in breve tempo le iniziative legislative necessarie ad assicurare il rispetto del comma 3 dell’art. 81 della Costituzione. Né, se fossimo sul piano strettamente civilistico, potrebbe invocarsi il principio dell’eccessiva onerosità sopravvenuta, in quanto si tratterebbe nei casi in esame di contratti istantanei, a prestazioni corrispettive, ad esecuzione differita soltanto della prestazione a carico dello Stato[16], in cui occorre, proprio per tale motivo, procedere semplicemente alla rivalutazione – ossia all’adeguamento al costo della vita calcolato sul valore medio dell’indice ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati –, stabilita, peraltro, con legge dallo stesso Stato debitore (v. art. 11, co. 1, del D.L. 30 dicembre1992, n. 503).

        Pertanto, la mancata perequazione delle pensioni in esame si risolve di fatto in una mascherata imposizione tributaria, limitata ad una sola categoria di contribuenti (i pensionati), in violazione degli artt. 3 e 53 della Costituzione, oltre che degli artt. 36 e 38 della Costituzione, che prevedono una proporzionalità ed un adeguamento dei trattamenti pensionistici alle retribuzioni ricevute dai pensionati alla fine della loro attività lavorativa, avendo la pensione natura giuridica di una retribuzione differita, come sempre riconosciuto dal Giudice delle Leggi (ex plurimis, sentenza n. 70 del 2015) ed anche proprio dalla sentenza oggetto della presente recensione[17].

 

Roma, li 7 aprile 2025                                              

 

 

[1] v. articolo dell’Autore, intitolato “La pensione è un dritto quesito” in Riv. “Lavoro e previdenza oggi” 3-4/2016, p. 161 e ss.

[2] v. in proposito l’intervento dell’on. G. Codacci Pisanelli, Atti Assemblea Costituente n. 4215, in www.cameradeideputati.it

[3] v. C. Mortati, Costituzione (dottrine generali), in Enciclopedia del diritto, vol. XI, Milano, 1962, p. 139 ss.

[4] v.V. De Nardo, Sui fondamenti del diritto, Padova, 1996.

[5] v. C. Cost. 10 gennaio 1966, n. 3, 3 luglio 1967, n. 78 e 27 dicembre 1973, n. 184, in Cons. St.,1966, II, 34; 1967, II, 494; 1973, II, 1289.

[6] v.V. De Nardo, Sui fondamenti del diritto, Padova, 1996.

[7] V. V.DE NARDO, La democrazia sociale costituzionale fra la democrazia liberale e la democrazia socialista, in Rivista internazionale di filosofia del diritto, II^, aprile/giugno 2024, Studi p.379 e ss.

[8] v. V. De Nardo, La pensione è un dritto quesito, in Lavoro e prev. oggi, 2016, 3-4, 161 e ss.

[9] v.V. De Nardo, Sui fondamenti del diritto, Padova, 1996.

[10] v. C. Cost. 10 gennaio 1966, n. 3, 3 luglio 1967, n. 78 e 27 dicembre 1973, n. 184, in Cons. St.,1966, II, 34; 1967, II, 494; 1973, II, 1289.

[11] v. Zanobini, Corso di diritto amministrativo, II, 7^ ed., Milano, 1953, 348.

[12] v. C. Cost. 4 novembre 1999, n. 416 ed anche n. 229 del 1999, n. 211 del 1997 e n. 390 del 1995, in Giur. Cost. it., 1999, 6.

[13] v. P. Virga, Il provvedimento amministrativo, Milano, 1968, 87.

[14] v. G. Landi, G. Potenza, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 1967, II, 46.

[15]

[16] v. De Nardo, La pensione è un diritto quesito, in Lavoro e previdenza oggi, 2016, 3-4, 161 e ss.

[17] v. C. Cost. 10 marzo 2015, n. 70.

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