spot_img
HomeDottrinaLa disciplina del “riporzionamento” nell’ordinamento italiano: prime considerazioni

La disciplina del “riporzionamento” nell’ordinamento italiano: prime considerazioni

di Domenico Bonaccorsi di Patti

Abstract [It]: Il presente saggio si propone di analizzare la nuova disciplina del riporzionamento (ovvero della shrinkflation) contenuta nell’art. 15-bis del Codice del Consumo, e dell’individuazione dei possibili rimedi a tutela dei consumatori.

Abstract [En]: The paper aims aims to analyze the new discipline of re-portioning (i.e. shrinkflation) contained in the art. 15-bis of the Consumer Code, and the identification of possible remedies to protect consumers.

Parole chiave: commercio – riporzionamento – pratiche commerciali scorrette

trade shrinkflation – unfair commercial practices

SOMMARIO: 1. La disciplina italiana del riporzionamento – 2. Riporzionamento: genesi della norma e brevi spunti comparatistici.– 3. Riporzionamento e delimitazioni del precetto normativo. – 4. Riporzionamento: apparato sanzionatorio e rimedi di private enforcement. – 5. Ulteriori ambiti di tutela rispetto alle disposizioni sul riporzionamento?

1.  La disciplina italiana del riporzionamento

La legge annuale per il mercato e la concorrenza per l’anno 2023 (l. 16 dicembre 2024, n. 193), ha previsto l’introduzione nel Codice del Consumo di un’apposita previsione disciplinante il fenomeno della cd. sgrammatura (o shrinkflation[1], ovvero quella pratica attraverso cui le aziende “riducono la quantità di prodotto presente nelle confezioni dei prodotti di largo consumo […] mantenendo i prezzi sostanzialmente invariati”[2]).

Più esattamente, l’art. 23 del citato testo normativo[3], rubricato “disposizioni in materia di riporzionamento dei prodotti preconfezionati”, prevede che dopo l’art. 15 del Codice del Consumo, venga inserito l’art. 15-bis (anch’esso rubricato “Disposizioni in materia di riporzionamento dei prodotti preconfezionati”), del seguente tenore “i produttori che immettono in commercio, anche per il tramite dei distributori operanti in Italia, un prodotto di consumo che, pur mantenendo inalterato il precedente confezionamento, ha subito una riduzione della quantità nominale e un correlato aumento del prezzo per unità di misura da essi dipendenti, informano il consumatore dell’avvenuta riduzione della quantità, tramite l’apposizione, nel campo visivo principale della confezione di vendita o in un’etichetta adesiva, della seguente dicitura: “Questa confezione contiene un prodotto inferiore di X (unità di misura) rispetto alla precedente quantità”.

L’obbligo informativo ha carattere temporaneo, atteso che il comma 2 del predetto art. 15-bis, prevede che “l’obbligo di informazione di cui al comma 1 si applica per un periodo di sei mesi a decorrere dalla data di immissione in commercio del prodotto interessato”.

Quanto all’entrata in vigore, la norma stabiliva originariamente – sub comma 3 – che “le disposizioni del presente articolo si applicano a decorrere dal 1° aprile 2025».

La previsione è stata oggetto di interpolazione, prima ancora della sua entrata in vigore, da parte del d.l. milleproroghe per il 2025 (d.l. 27 dicembre 2024, n. 202, come convertito con modifiche con l. 21 febbraio 2025, n. 15), che – a sua volta – stabilisce, all’art. 23, comma 1-sexies che “all’articolo 23, comma 3, della legge 16 dicembre 2024, n. 193, le parole: “a decorrere dal 1° aprile 2025” sono sostituite dalle seguenti: “a decorrere dal 1° ottobre 2025″”.

La nuova regolamentazione, dunque, entrerà in vigore nel corso del presente anno 2025, ad ottobre.

Prima di affrontare la tematiche, una premessa appare d’obbligo: il punto di partenza (confermato dalla previsione normativa) di qualsiasi ricostruzione è costituito dal+la considerazione secondo cui la pratica del riporzionamento, viene ritenuta in sé del tutto lecita[4], purché siano rispettate le previsioni di cui all’art. 15-bis, Codice del Consumo e (occorre aggiungere), siano rispettate le regole in tema di trasparenza (e, dunque, di non ingannevolezza proprie di qualsivoglia pratica commerciale[5]; per giungere ad una diversa conclusione, si dovrebbe ritenere che la sgrammatura possa integrare l’ingannevolezza vietata dalla disciplina a tutela del consumatore, in quanto la semplice proposta di confezioni di prodotto contenenti quantità inferiori a quelle tradizionalmente proposte, a parità di prezzo, abbia ex se natura decettiva, perché tale da indurre in errore il consumatore ritenuto portatore della convinzione di acquistare la medesima quantità di prodotto, perché “abituato” negli anni a vedersi proporre confezioni contenenti lo stesso quantitativo di merce[6]).

Invero, il riporzionamento può essere, innanzitutto, il frutto di scelte di politica commerciale del tutto indipendenti dalla leva del prezzo per unità di misura e, ad esempio, correlate a dinamiche demografiche (numero medio di componenti di una famiglia, e così via), di posizionamento in una determinata fascia di mercato etc. Nel contempo, anche quando il riporzionamento sia frutto di uno specifico riposizionamento in termini di prezzo per unità di misura (per rispondere alla pressione inflazionistica), non può automaticamente ritenersi sussistere una scorrettezza ai danni dei consumatori, non potendosi ritenere ex se ingannevole la mera richiesta di un prezzo maggiore rispetto al passato (magari dettata dall’evoluzione al rialzo dei prezzi delle materie prime o dei servizi).

E, dunque, in questa prospettiva, il legislatore ha coerentemente previsto un obbligo che si potrebbe definire di trasparenza rafforzata, a tutela dei consumatori, rispetto alla specifica pratica di riporzionamento.

Ciò premesso, la previsione normativa di recente introduzione sollecita alcune brevi riflessioni, pur a carattere necessariamente provvisorio, stante la assoluta novità del dettato normativo (ed in attesa dell’entrata in vigore della previsione).

2.     Riporzionamento: genesi della norma e brevi spunti comparatistici

Com’è noto, la disposizione sul riporzionamento giunge all’esito di un dibattito – non limitato al nostro ordinamento – che ha preso l’avvio dall’osservazione empirica di un fenomeno frutto della crisi inflazionistica che ha avuto luogo nei primi anni successivi al periodo pandemico[7], vale a dire la riduzione di quantità di prodotto per confezione (a parità di prezzo proposto)[8].

Tale spinta inflazionistica ha portato all’attenzione degli interpreti (oltreché alla ribalta delle cronache) taluni comportamenti che lambiscono il più ampio territorio delle condotte poco (o non) trasparenti nei rapporti fra professionisti e consumatori ed aventi ad oggetto la vendita di prodotti di largo consumo.

Siffatta tecnica di marketing è stata – come detto – generalmente definita Shrinkflation (parola composta dal verbo to shrink [i.e. “restringere”] e dal termine inflation [i.e. “inflazione”]) ed ha interessato prevalentemente prodotti destinati al consumo, proposti ai consumatori soprattutto attraverso la grande distribuzione[9] ed ha sollecitato interventi legislativi anche in altri Paesi.

La prima nazione che ha introdotto un’apposita disciplina riguardo la pratica in questione è stata la Francia. In particolare, il Governo francese nell’Arrêté del 16 aprile 2024, ha – sub art. 1, comma II – imposto un apposito obbligo informativo agli imprenditori della grande distribuzione [con determinati limiti dimensionali minimi] “Lorsqu’ils proposent à la vente un produit de grande consommation préemballé à quantité nominale constante dont la quantité a été réduite et qui se traduit par une hausse du prix ramené à l’unité de mesure”; cfr. www.legifrance.gouv.fr; in base all’innovazione introdotta nell’ordinamento francese, una Shrinkflation non esplicitata nei termini richiesti dalla disposizione costituisce, fra l’altro, un illecito sanzionato con una pena pecuniaria: “Les manquements aux dispositions de cet arrêté, pris en application de l’article L. 112-1 du code de la consommation, seront passibles d’une amende administrative dont le montant pourra atteindre 3 000 euros pour une personne physi- que et 15 000 euros pour une personne morale. En outre, les agents de la direction générale de concurrence, de la concurrence et de la répression des fraudes pourront utiliser, pour faire cesser ces manquements, les pouvoirs de police administrative (injonction) qui leur sont octroyés par l’article L. 521-1 du code de la consommation. En outre, ces décisions pourront faire l’objet d’une mesure de publicité aux frais du professionnel, en application de l’article L. 521-2 de ce code”).

La soluzione nazionale italiana, dunque, seppure con alcune – marcate – differenze, sembra ricalcare l’impostazione transalpina.

Forti assonanze, in effetti, possono rinvenirsi fra le due discipline. Ciò appare evidente, quanto al presidio di trasparenza adottato: la norma francese prevede che il prodotto riporzionato rechi un’etichetta che indichi la seguente dicitura: “Pour ce produit, la quantité vendue est passée de X à Y et son prix au (préciser l’unité de mesure concernée) a augmenté de …% ou …€”; la norma italiana, a sua volta, impone la dicitura “Questa confezione contiene un prodotto inferiore di X (unità di misura) rispetto alla precedente quantità”. Da notare, peraltro, che la previsione transalpina consente che l’indicazione possa essere apposta sul prodotto («directement sur l’emballage »), oppure su un’etichetta che può essere collocata anche nelle vicinanze del prodotto riporzionato (« ou sur une étiquette attachée ou placée à proximité de ce produit »), con la precisazione che l’etichetta stessa debba essere “visible, lisible et dans une même taille de caractères que celle utilisée pour l’indication du prix unitaire du produit”.

Nel contempo, può rilevarsi come la normativa francese sia diretta in via principale (se non esclusiva), alla grande distribuzione, applicandosi a soggetti “opérant dans le secteur de la distribution des produits de grande consommation” […] “qui exploitent, directement ou indirectement, un magasin dont la surface de vente est supérieure à 400 mètres carrés», laddove la disposizione italiana vede come destinatari (apprenetemnte esclusivi) i produttori.

L’impianto normativo italiano risulta, poi, più rigoroso sotto il profilo temporale, atteso che lo specifico obbligo di trasparenza introdotto dall’art. 15-bis, Codice del Consumo (sei mesi), ha una durata maggiore rispetto al termine previsto dalle disposizioni francesi (due mesi[10]).

3.     Riporzionamento e delimitazioni del precetto normativo

Passando ad una disamina del precetto normativo contenuto nell’art. 15-bis, Codice del Consumo, la prima annotazione riguarda la scelta per così dire “topografica” adottata dal legislatore: la norma, infatti, è stata inserita nella sez. I, del Capo III del Codice del Consumo[11], dedicata alla disciplina delle modalità di comunicazione dei prezzi per unità di misura (e non nell’ambito della disciplina sulle pratiche commerciai scorrette). Da ciò deriva, come si avrà modo di rilevare, l’applicazione – in prima battuta – del regime di tutele previsto dallo specifico capo.

Ciò premesso, occorre sottolineare come i destinatari della previsione normativa nazionale siano, innanzitutto, “i produttori che immettono in commercio, anche per il tramite dei distributori operanti in Italia […]” prodotti di consumo. Non vi sono, dunque, soglie dimensionali o per categoria merceologica, diversamente da quanto previsto dalle norme d’oltralpe (diretta, come detto, alla grande distribuzione). E, d’altra parte, non vi è un coinvolgimento diretto nei confronti della fase distributiva dei prodotti. Né, poi, vi sono specificazioni circa il canale di vendita.

Invero, l’oggetto dell’immissione in commercio è costituito da “un prodotto di consumo”. La delimitazione del campo di applicazione della disposizione è, pertanto, riferita non solo ai prodotti alimentari, ma in generale a tutti i prodotti di (largo) consumo preconfezionati (essendo condizione di applicabilità la vendita in confezioni, dovendosi ritenere esclusa la vendita di prodotti sfusi).

Non del tutto felice appare la scelta che individua l’ipotesi regolamentata: l’obbligo di trasparenza rafforzata scatta quando il produttore “pur mantenendo inalterato il precedente confezionamento” immette sul mercato quel determinato prodotto che “ha subito una riduzione della quantità nominale e un correlato aumento del prezzo per unità di misura da essi dipendenti”.

Snodo critico risulta, allora, essere l’utilizzo del termine “inalterato” (i.e. “che non subisce o non ha subìto alterazione, immutato”[12]); termine che appare delimitare in senso estremamente restrittivo la portata della norma. Il termine in questione si riferisce espressamente al “precedente confezionamento”, e la locuzione fissata dalla norma potrebbe far ritenere che la disposizione non trovi applicazione laddove il produttore apporti una qualsiasi modifica, anche poco rilevante, alla confezione del prodotto (con ciò, fra l’altro, rendendo la prescrizione facilmente aggirabile). Sul punto, peraltro, il soccorso dovrà necessariamente venire dalle clausole generali di condotta, nei rapporti contrattuali fra le parti.

L’obbligo è costituito dal dover informare “il consumatore dell’avvenuta riduzione della quantità”.

Ciò avviene attraverso “l’apposizione, nel campo visivo principale della confezione di vendita o in un’etichetta adesiva” di una specifica dicitura: “Questa confezione contiene un prodotto inferiore di X (unità di misura) rispetto alla precedente quantità”.

Come già accennato, l’obbligo informativo ha carattere temporaneo. Esso, infatti, “si applica per un periodo di sei mesi a decorrere dalla data di immissione in commercio del prodotto interessato”. La prospettiva sembra essere quella di ritenere che l’introduzione di confezionamenti riporzionati venga – nel tempo – percepita correttamente dalla platea dei consumatori (inizialmente disorientati dal riporzionamento).

4.     Riporzionamento: apparato sanzionatorio e rimedi di private enforcement.

La scelta di inserire la norma nella sez. I, del Capo III, comporta – come anticipato – l’applicazione dei rimedi di tutela ivi previsti. In particolare, in assenza di diposizioni specifiche, la violazione della previsione legislativa sembra condurre all’applicazione dell’art. 17, Codice del Consumo[13], il quale stabilisce che “fatto salvo quanto previsto dalla disciplina di settore per la violazione dell’articolo 15, comma 5 (i.e. la disciplina in tema di prezzi dei prodotti petroliferi per uso di autotrazione, esposti e pubblicizzati presso gli impianti automatici di distribuzione dei carburanti), chiunque omette di indicare il prezzo per unità di misura o non lo indica secondo quanto previsto dalla presente sezione è soggetto alla sanzione di cui all’articolo 22, comma 3, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114[14], da irrogare con le modalità ivi previste”.

Ciò comporta la sottoposizione del produttore inadempiente alla sanzione prevista dalle disposizioni in tema di commercio in base a cui la sanzione amministrativa è fissata in misura compresa fra lire 1.000.000 e lire 6.000.000[15].

La competenza ad applicare la citata sanzione è attribuita al sindaco del comune nel quale si è verificata la violazione, in base alla lettera dell’art. 22, comma 7, d.lgs. n. 114/1998[16].

Rispetto alla disposizione contenuta nell’art. 15-bis, Codice del Consumo, appaiono spendibili le considerazioni svolte dalla dottrina[17] in relazione alle previsioni della sez. I, Capo III, Codice del Consumo, secondo cui la disciplina sulla trasparenza dei prezzi è posta “nell’ottica di tutela preventiva e non riparatoria, collocata nella fase pre-contrattuale del rapporto professionista-consumatore”.

Non vi sono, invece, specifiche disposizioni circa eventuali rimedi privatistici rispetto alla violazione della norma contenuta nell’art. 15-bis, Codice del Consumo. Ciò comporta la tendenziale applicazione delle previsioni generali relative ai vizi del consenso nei rapporti contrattuali e all’illecito contrattuale ed extracontrattuale.

Sulla falsariga del percorso – più o meno accidentato – seguito, prima dalla disciplina antitrust, e, più di recente, dalla normativa relative alle pratiche commerciali scorrette, può immaginarsi una combinazione di rimedi di private enforcement.

Analogamente a quanto rilevato dalla dottrina circa la violazione delle disposizioni in materia di pratiche commerciali scorrette, in quanto contenenti norme di comportamento e non di validità[18], può ritenersi che anche la violazione dell’art. 15-bis Codice del Consumo non può condurre alla nullità del contratto fra venditore e consumatore[19].

Non può, invece, escludersi l’interesse per quei tentativi (noti nell’elaborazione delle azioni follow up in materia di pratiche scorrette valorizzando quelle che si potrebbero definire assonanze, rispettivamente, fra le condotte illecite per ingannevolezza e il dolo[20], e fra le condotte scorrette per perché aggressive e la violenza[21]) di “importare” rimedi relativi ai vizi del consenso previsti dalle norme codicistiche sul contratto.

L’applicazione delle norme codicistiche in tema di annullabilità per vizio del consenso richiede (all’evidenza) requisiti ben stringenti e rigorosi. Il che esclude di giungere ad un’automatica estensione dei rimedi previsti dalle norme codicistiche relative ai vizi del consenso appena richiamate a fronte della violazione dell’art. 15-bis, Codice del Consumo. Nel contempo, non sembra nemmeno da escludere il rimedio previsto dalla norma codicistica sul dolo incidente (che darà luogo al risarcimento del danno).

Da sottolineare, peraltro, che la vera difficoltà di attuare siffatti rimedi è determinata dal fatto che destinatari della norma contenuta nell’art. 15-bis, Codice del Consumo, sono i produttori che – nella grande distribuzione (che sarà il campo di elezione della disciplina) – non hanno – generalmente – rapporti contrattuali con i consumatori, laddove, invece, l’acquisto del prodotto riporzionato avviene fra distributore e cliente.

In effetti, allora, così come avvenuto per le azioni di private enforcement in tema di pratiche commerciali scorrette, il rimedio che verrà prevalentemente in rilievo sarà costituito dalla tutela risarcitoria, la quale costituisce strada maggiormente percorribile (ma non necessariamente più efficace), pur nelle difficoltà di giungere ad un effettivo risultato utile rispetto a condotte la cui tipica diffusione è generalmente ampia, e rispetto a cui la posizione del singolo consumatore rappresenta una frazione molto piccola del danno in ipotesi causato dalla pratica illecita (soprattutto in relazione a pratiche che riguardano prodotti di largo consumo), con (quasi) inevitabile ricorso alla liquidazione in via equitativa[22]. Il che, peraltro, indica quale più che probabile ambito di confronto fra professionisti e consumatori quello delle azioni collettive.

Circa il piano risarcitorio[23], tuttavia, buona parte delle criticità che avevano condotto alla emanazione di una disciplina speciale per le azioni cd. follow up in materia anticoncorrenziale (e che hanno giustificato la recente modifica dell’art. 27, Codice del Consumo) non sembrano presenti con la medesima pregnanza nelle corrispondenti azioni risarcitorie derivanti da condotte contrarie all’art. 15-bis, Codice del Consumo, essendo indubbiamente ben più agevole giungere alla prova di un riporzionamento non trasparente, in violazione della norma di recente introduzione. Così come perde di rilievo – nel campo specifico – la tematica dell’interferenza fra disciplina sanzionatoria e private enforcement che a lungo ha agitato i dibattiti in materia antitrust[24].

La possibilità di invocare, nella sua interezza, la tutela risarcitoria comporta alcune conseguenze circa l’applicabilità di tutte le norme che regolano l’illecito aquiliano, quali ad esempio, la previsione di cui all’art. 2055, comma 1, c.c., circa la responsabilità concorrente di più soggetti, in ipotesi coinvolti nella medesima pratica di riporzionamento, a vario titolo (come può avvenire nel caso di riporzionamento, da parte del produttore e del distributore, ove l’illecito possa derivare – ad es. – da una combinazione di condotte relative anche alle modalità di posizionamento nei locali del distributore dei prodotti soggetti a sgrammatura)[25].

La disposizione codicistica appena richiamata, come è noto, stabilisce che, se il fatto dannoso è imputabile a più persone, “tutte sono obbligate in solido al risarcimento del danno”; ciò consente di “combinare” eventuali titoli diversi di responsabilità[26]. Diretta conseguenza è il principio secondo cui nella solidarietà passiva risarcitoria “non pare rilevante la fonte dell’obbligo risarcitorio, il (medesimo) danno può derivare da diverse condotte di illecito aquiliano, ovvero da diversi inadempimenti (anche a contratti diversi), ovvero ancora dal concorso tra illecito contrattuale ed extracontrattuale”[27].

5.     Ulteriori ambiti di tutela rispetto alle disposizioni sul riporzionamento?

La specifica disciplina di recente introduzione non appare, tuttavia, esaurire il catalogo dei rimedi esperibili dal consumatore in presenza di eventuali comportamenti poco trasparenti, e rientranti nella disposizione contenuta nell’art. 15-bis, Codice del Consumo.

Invero, tali condotte appaiono poter interferire – ferme restando le tutele stabilite anche da altri settori dell’ordinamento (segnatamente il settore del diritto penale, ove le condotte possano integrare vere e proprie frodi; così come affermato, in linea generale, rispetto alle disposizioni ex art. 13 e ss., Codice del Consumo[28]) – con la disciplina di tutela contenuta nel Codice del consumo in tema di pratiche commerciali scorrette (in particolare di pratiche ingannevoli, anche per omissione)[29].

Ad avviso di chi scrive, rispetto al riporzionamento sembrano poter venire in rilievo anche le previsioni che hanno ad oggetto la trasparenza, di cui all’art. 20, comma 2[30], e 21, comma 1, lettera b), la quale ultima norma, come è noto, sancisce l’ingannevolezza della “pratica commerciale che contiene informazioni non rispondenti al vero o, seppure di fatto corretta, in qualsiasi modo, anche nella sua presentazione complessiva, induce o è idonea ad indurre in errore il consumatore medio riguardo ad uno o più dei seguenti elementi e, in ogni caso, lo induce o è idonea a indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso” […] b) le caratteristiche principali del prodotto, quali la sua disponibilità, i vantaggi, i rischi, l’esecuzione, la composizione, gli accessori, l’assistenza post-vendita al consumatore e il trattamento dei reclami, il metodo e la data di fabbricazione o della presta- zione, la consegna, l’idoneità allo scopo, gli usi, la quantità, la descrizione, l’origine geografica o commerciale o i risultati che si possono attendere dal suo uso, o i risultati e le caratteristiche fondamentali di prove e controlli effettuati sul prodotto”[31].

Tale conclusione appare doverosa soprattutto laddove l’art. 15-bis fosse da ritenersi suscettibile di un’interpretazione restrittiva, con riferimento al termine “inalterato”, riferito al “precedente confezionamento”, con conseguente applicazione (estremamente) limitata della previsione. Ed ancora di più, in relazione ai rapporti fra i consumatori ed i distributori, rispetto alla vendita di prodotti il cui confezionamento non sia conforme alla previsione sul riporzionamento (salvo doversi, poi, interrogare circa i rapporti fra distributori, chiamati in causa dai consumatori, e produttori inadempienti alla specifica disposizione), rispetto all’obbligo di trasparenza rafforzata.

E, tuttavia, affinché il riporzionamento venga in rilievo rispetto alle disposizioni in tema di pratiche commerciali scorrette, sembra occorrere la compresenza di un quid pluris rispetto alla mera condotta consistente nella “ricalibratura” delle confezioni dei prodotti. Ciò può avvenire, ad esempio, laddove alla riduzione quantitativa del prodotto, si accompagni anche una falsa (e comunque, ingannevole) indicazione della quantità contenuta nella confezione.

D’altra parte, appare in effetti, ben più arduo e complesso giungere a ritenere che possa ravvisarsi una condotta scorretta nella mera proposta di confezionamenti contenenti (minori) quantità di prodotto non usualmente offerti in passato, laddove la (corretta) quantità stessa sia oggetto di esplicita menzione nella etichettatura delle confezioni, come oggi richiesto dall’art. 15-bis, Codice del consumo.

Così come non può escludersi, in linea di principio, che il rispetto (soprattutto ove abbia carattere meramente formale), dell’art. 15-bis, Codice Consumo, precluda in radice la configurabilità di una lesione delle norme relative alla repressione delle pratiche commerciali scorrette. Essendo ben immaginabili condotte di riporzionamento – conformi alla disposizione da ultimo introdotta –  ma comunque decettive, per le modalità comunicative, ad es.

Ancora una volta, la novità del fenomeno[32] non appare consentire – allo stato – una disamina approfondita delle possibili implicazioni delle condotte inquadrabili nella fattispecie del riporzionamento[33] (da una ricerca testuale nel sito internet dell’AGCM, il termine Shrinkflation – il termine riporzionamento è di introduzione troppo recente per trovare spazio in alcun repertorio[34] – risulta essere stato impiegato dalla medesima AGCM in un unico procedimento, avente ad oggetto un prodotto di largo consumo ma non alimentare, vale a dire un rotolo di carta assorbente[35], rispetto a cui, tuttavia, la criticità era ravvisata nella falsa indicazione delle quantità contenute nella confezione).

Laddove la condotta integrante il riporzionamento configuri anche una condotta ingannevole (in presenza, pertanto, di ulteriori elementi che possano qualificare la pratica in termini di scorrettezza, per ingannevolezza), l’individuazione dei possibili rimedi applicabili a tutela del consumatore, in ipotesi, leso dal comportamento scorretto del professionista, appare più lineare, anche alla luce dei recenti interventi legislativi che hanno interessato il private enforcement in materia.

Ben più agevole sarà, in effetti, il compito del consumatore leso da un riporzionamento ingannevole, in tal caso. Si ricorda, infatti, che le recenti modifiche al Codice del Consumo hanno significativamente arricchito il catalogo dei rimedi a tutela dei soggetti vittime di pratiche commerciali scorrette[36], avendo il legislatore italiano – pur con qualche ritardo – recentemente dato attuazione alla direttiva UE/2019/2161 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 novembre 2019[37], attraverso il d.lgs. 7 marzo 2023, n. 26, avente ad oggetto la espressa previsione della legittimazione attiva dei consumatori lesi da una pratica scorretta[38], e inserendo il comma 15bis, il quale stabilisce che “i consumatori lesi da pratiche commerciali sleali possono altresì adire il giudice ordinario al fine di ottenere rimedi proporzionati ed effettivi, compresi il risarcimento del danno subito e, ove applicabile, la riduzione del prezzo o la risoluzione del contratto, tenuto conto, se del caso, della gravità e della natura della pratica commerciale sleale, del danno subito e di altre circostanze pertinenti.  Sono fatti salvi ulteriori rimedi a disposizione dei consumatori” [39]).

In questo contesto, una breve conclusione appare imporsi: la disposizione introdotta con l’art. 15-bis, Codice del Consumo (come tutte le norme di nuovo conio) dovrà essere sottoposta ad un adeguato rodaggio al fine di saggiarne l’effettiva efficacia a tutela dei consumatori.


[1] In linea generale, il termine anglosassone viene tradotto con la locuzione “sgrammatura”; oggi appare preferibile l’utilizzo del termine introdotto dal nostro legislatore di “riporzionamento”. In Francia il termine viene reso con “reduflation” (“Derrière l’anglicisme – du verbe anglais ‘to shrink’, rétrécir, et dont il existe un équivalent francophone, la réduflation –, il s’agit d’une pratique des fabricants de produits de grande consommation, agro-industriels ou distributeurs, consistant à réduire les quantités des produits vendus plutôt que d’augmenter – trop – significativement les prix”; www.euractiv.fr). Sono impiegati, in via alternativa, i termini “rapetiflation”, “rétréciflation” (“Un mot-valise équivalent en français est mis en avant au Québec pour désigner cette stratégie commerciale décriée: la ‘réduflation’. L’Office québécois de la langue française (OQLF), toujours très en pointe dans la lutte contre les anglicismes, la définit comme le ‘sous-dimensionnement d’un bien de consommation courante par son fabricant, sans diminution du prix de vente’. D’autres mots existent en français, comme ‘rapetiflation’, terme utilisé notamment fin 2016 par le journal économique Les Échos, quand la marque de confiserie Toblerone avait annoncé réduire le poids de deux barres de chocolat en vente au Royaume-Uni sans toucher au prix du produit. D’autres préfèrent encore le terme ‘rétréciflation’. Faudra-t-il légiférer contre cette inflation de néologismes?” (tratto da www.france24.com, 1° settembre 2023).

[2] La definizione del fenomeno è ripresa dal resoconto stenografico della Audizione 22 del direttore generale per la tutela del consumatore dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, Dott. Giovanni Calabrò (seduta di martedì 24 maggio 2022) innanzi alla Commissione parlamentare di inchiesta sulla tutela dei consumatori e degli utenti, ove si legge “Circa la shrinkflation, si tratta di un fenomeno relativamente nuovo in Italia, una tecnica di marketing del tutto legittima, purché siano rispettate alcune condizioni. Noi ci occupiamo dell’aspetto della trasparenza. Con la shrinkflation le aziende riducono la quantità di prodotto presente nelle confezioni dei prodotti di largo consumo – quelli che troviamo normalmente sugli scaffali dei supermercati – mantenendo i prezzi sostanzialmente invariati. Si compra ad esempio la confezione da 100 e si trova invece 80 di prodotto. Le associazioni dei consumatori – una in particolare – hanno monitorato il fenomeno e presentato delle segnalazioni, stiamo verificando se possa rilevare o meno ai fini dell’applicazione della disciplina di cui noi ci occupiamo, ovvero quella stabilita dal Codice del consumo, in particolare in tema di pratiche commerciali scorrette. Quello che rileva ai nostri fini non è tanto il fatto che invece di 100 di prodotto ci sia 80, ma la trasparenza. Questo si lega al tema dell’etichettatura su cui l’Autorità si è già pronunciata in tanti casi – adesso abbiamo il nutriscore che costituisce tutt’altra questione – quindi stiamo approfondendo anche la shrinkflation”.

[3] L’introduzione della norma ha sollevato dubbi di legittimità rispetto al diritto unionale, per una possibile violazione della procedura TRIS Technical Regulation Information System prevista dalla Direttiva (UE) 2015/1535, che prevede la notifica preventiva alla Commissione UE delle norme tecniche suscettibili limitare la libera circolazione nel mercato unico dell’UE di prodotti e di servizi della società dell’informazione (ai sensi di tale disciplina “Member States notify their legislative projects regarding products and Information Society services to the Commission which analyses these projects in the light of EU legislation. Member States participate on the equal foot with the Commission in this procedure and they can also issue their opinions on the notified drafts”).

[4] Tale è anche la posizione del governo francese il quale, come già ricordato, ha rilevato che “Cette pratique […] n’est pas interdite” (cfr. il documento lettre-de-la-daj- bilan-dactivite-de-la-dgccrf-pour-2022, cit.).

[5] Come sottolineato in precedenza dall’AGCM, nel corso dell’Audizione 22 del direttore generale per la tutela del consumatore dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, Dott. Giovanni Calabrò (seduta di martedì 24 maggio 2022), cit., la shrinkflation, è considerata “una tecnica di marketing del tutto legittima”.

[6] Da notare che il considerando n. 51 della direttiva UE/2019/2161 ricorda che “L’articolo 16 della Carta garantisce la libertà d’impresa conformemente al diritto dell’Unione e alle legislazioni e prassi nazionali. Tuttavia, le attività di marketing, negli Stati membri, che promuovano beni come identici, mentre essi hanno in realtà una composizione o caratteristiche significativamente diverse, possono ingannare i consumatori e indurli ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso”.

[7] Il punto non appare in discussione, ove si ricordi che la DGCCRF del Ministero francese dell’economia ha espressamente ricollegato il fenomeno all’aumento dei prezzi: “La hausse des prix des produits alimentaires a conduit à de nouvelles pratiques surveillées par la DGCCRF, et notamment celle de la ‘shrinkflation’ ou ‘réduflation’. Cette pratique, qui n’est pas interdite, consiste à réduire la quantité de produit contenue dans un bien alors que son prix est stable ou augmente” (dal sito www.economie.gouv. fr). Risulta pubblicata – sul Journal Officiel del 4 maggio 2024 – apposita Arrêté (Arrêté du 16 avril 2024 relatif à l’information des consommateurs sur le prix des produits dont la quantité a diminué) dei ministri competenti (ministre de l’économie, des finances et de la souveraineté industrielle et numérique et la ministre déléguée auprès du ministre de l’économie, des finances, et de la souveraineté industrielle et numérique, chargée des entreprises, du tourisme et de la consommation), nella quale si stabilisce l’obbligo di apporre apposite etichette del seguente tenore “Pour ce produit, la quantité vendue est passée de X à Y et son prix au (préciser l’unité de mesure concernée) a augmenté de …% ou …€” (cfr. www. legifrance.gouv.fr).

[8] La Commissione UE, nel dare atto della comunicazione preventiva dell’Italia secondo la procedura TRIS (Numero di notifica : 2024/0560/IT (Italy), definisce la Schrinkflation, come “la pratica dei produttori volta a ridurre la quantità di prodotto all’interno delle confezioni, mantenendo però il prezzo sostanzialmente invariato o, addirittura, aumentandolo, con la conseguenza di disorientare il consumatore che si trova a subire un aumento dei prezzi in maniera poco trasparente”.

[9] Si ricorda che l’AGCM aveva avuto modo di occuparsi di un “episodio” in qualche modo avvicinabile alla Shrinkflation quando aveva sanzionato alcune note compagnie telefoniche, nel procedimento n. I/820 – Fatturazione mensile con rimodulazione tariffaria, per aver modificato – riducendolo – il periodo di fatturazione.

[10] La disposizione in vigore in Francia prevede che “l’obligation d’information prévue au II s’applique pendant un délai de deux mois, à compter de la date de la mise en vente du produit dans sa quantité réduite”.

[11] Per il commento alle previsioni del Capo III (artt. da a 13 a 17) del Codice del Consumo, vedi Toschi Vespasiani, Commento all’art. 13, Cod. Consumo, in De Cristofaro – Zaccaria (a cura di), Commentario breve al diritto dei consumatori, II ed., Padova, 2013, 110 ss. nonché A. Massaro, Commento all’art. 13, Cod. Consumo, in A. Barba, A. Barenghi, A. Cuffaro (a cura di), Codice del Consumo, Milano, 2023, 101.

[12] Secondo la definizione che si rinviene in https://www.treccani.it/vocabolario.

[13] Su cui vedi Toschi Vespasiani, Commento all’art. 17, Cod. Consumo, in De Cristofaro – Zaccaria (a cura di), Commentario breve al diritto dei consumatori, II ed., Padova, 2013, 115.

[14] Recante “Riforma della disciplina relativa al settore del commercio, a norma dell’articolo 4, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59”.

[15] A. Massaro, Commento all’art. 13, Cod. Consumo, in A. Barba, A. Barenghi, A. Cuffaro (a cura di), Codice del Consumo, cit., 103, pur in assenza di un espresso richiamo alla l. n. 689 del 1981, il riferimento alle disposizioni ivi contenuto si rende inevitabile. Tale tesi è di Carnabuci, Commento sub art. 17, Cod. Consumo, in Italia (a cura di), Codice del Consumo. Commento al d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206, Milano, 2006, 170.

[16] A. Massaro, Commento all’art. 13, Cod. Consumo, in A. Barba, A. Barenghi, A. Cuffaro (a cura di), Codice del Consumo, cit., 103, rileva che la giurisprudenza amministrativa ha ritenuto che ai sensi dell’art. 107, comma 5, d.lgs. 18 agosto 2000, la competenza spetti al dirigente e non più al sindaco (richiamando TAR Lazio, 19 agosto 2004, n. 7790, in Foro amm. – TAR, 2004, 2178)

[17] Il riferimento è a Toschi Vespasiani, Commento all’art. 13, Cod. Consumo, in De Cristofaro – Zaccaria (a cura di), Commentario breve al diritto dei consumatori, cit., 110.

[18] Tale approdo è più che noto e ne è espressione Cass., sez un., 19 dicembre 2007, n. 26724 e n. 26725, in Foro it., 2008, I, p. 784, con nota di Scoditti, in Mondo bancario, 2008, fasc. 4, p. 37 (m), con nota di Capriglione, in Giust. civ., 2008, I, p. 1175, con nota di Nappi, Le sezioni unite su regole di validità, regole di comportamento e doveri informativi, in Società, 2008, p. 449, con nota di Scognamiglio, Regole di comportamento nell’intermediazione finanziaria: l’intervento delle sezioni unite; in Danno e resp., 2008, p. 536, con nota di Roppo, La nullità virtuale del contratto dopo la sentenza “Rordorf”, in Giur. comm., 2008, II, p. 604, con nota di Bruno, Rozzi, in Contratti, 2008, p. 221, con nota di Sangiovanni, La nuova disciplina dei contratti di investimento dopo l’attuazione della Mifid;.

[19] In questo senso, Magli, Pratiche commerciali scorrette e rimedi civilistici nel contesto della responsabilità sociale d’impresa, in Contratto e impr., 2019, p. 727; tale autore ricorda che “la nullità di protezione non è invocabile come rimedio di carattere generale derivante dalla violazione di una norma imperativa che vieti una qualsiasi pratica commerciale sleale/scorretta che consiste in una norma di comportamento (come, appunto, nell’ipotesi in cui l’impresa dichiari contrariamente al vero di rispettare determinati obiettivi etici e sociali) In termini conclusivi, dunque, l’applicazione di questi criteri alle situazioni previste dalla direttiva in materia di pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori consente perciò di escludere la tesi della nullità perché in nessun caso la violazione del divieto penetra nel contenuto del contratto attraverso uno dei suoi elementi costitutivi”.

[20] Sempre in materia di pratiche commerciali scorrette, circa la possibilità di applicare le disposizioni sull’annullamento del contratto per dolo o violenza, Maugeri M., Violazione della disciplina sulle pratiche commerciali scorrette e rimedi contrattuali, in Nuova giuri. civile comm., II, 2008, II, p. 485, rileva che “in questi termini assoluti la soluzione non può essere accolta”, e, tuttavia, “è vero, però, e in questi termini la tesi citata deve essere accolta, che nella maggioranza dei casi potrà essere invocata la disciplina del dolo laddove siano state violate le prescrizioni in materia di pratiche ingannevoli (anche omissive) e quella sulla violenza qualora risultino violate le prescrizioni in materia di pratiche aggressive”. L’autrice ritiene, poi, da un lato, che “la circostanza che risultino integrati gli estremi della disciplina in tema di pratiche ingannevoli possa consentire, in primo luogo, di attribuire rilevanza, ai fini del dolo, anche al mero mendacio”, e che “occorrerà, in ogni caso, la prova che la pratica scorretta abbia inciso sulla volontà del contraente.” (p. 487).

[21] Cfr. Labella, Pratiche commerciali scorrette e rimedi civilistici,, in Contratto Impresa, 2013, p. 724, osserva correttamente (a sommesso avviso di chi scrive) che “nelle pratiche commerciali aggressive, la disciplina si impernia sul comportamento tenuto dal professionista indicato come molestia o coercizione (compresa la forza fisica). Il dato testuale evidenzia una certa differenza con il comportamento del contraente nel vizio che conduce all’annullabilità, tale da far ritenere assai ardua l’elevazione a rimedio generale di questa fattispecie nella disciplina delle pratiche commerciali aggressive”.

[22] La liquidazione equitativa del danno in caso di violazione delle disposizioni in tema di pratiche commerciali scorrette è stata analizzata da una parte della giurisprudenza di merito (Trib. Avellino, 10 dicembre 2020, in Foro it., 2021, I, c. 1482), secondo cui “non vi è dubbio sull’esistenza di un danno patrimoniale patito da X, che, leso nella sua libera determinazione da messaggi ingannevoli, scorretti o da omissioni informative riferibili alla installazione di un software di manipolazione dei dati delle emissioni, ha acquistato un prodotto credendo avesse caratteristiche che invece non aveva, e di qualità inferiore; per altro verso, ha sicuramente minor valore sul mercato dell’usato un mezzo con le rilevate problematiche. La liquidazione del danno non può che essere equitativa e può essere parametrata al minor valore dell’autovettura in termini percentuali rispetto al prezzo sostenuto per l’acquisto (che non è chiaramente leggibile nella proposta di acquisto in atti); stimasi equa la percentuale di deprezzamento del venti per cento oltre interessi sulla somma così determinata, dalla domanda al saldo”. Ancora, per la giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass., 14 ottobre 2021, n. 28037, in motivazione), “deve preliminarmente osservarsi che l’aver individuato una condotta antigiuridica non implica l’automatico riconoscimento del diritto risarcitorio, in assenza della prova della ricorrenza degli altri elementi costitutivi della fattispecie di responsabilità invocata: colpa o dolo del soggetto agente, ricorrenza del danno ingiusto, nesso di causa tra la condotta e l’evento di danno, conseguenze pregiudizievoli” […] “Addebitare una responsabilità risarcitoria senza la prova della ricorrenza di tutti gli elementi costitutivi di cui all’art. 2043 c.c., significherebbe superare i limiti strutturali del fatto illecito e sconfinare nella responsabilità stocastica. Non basta, infatti, che al soggetto agente venga imputata una condotta antigiuridica, come in questo caso, occorrendo altresì la dimostrazione che quella condotta antigiuridica, di cui l’agente debba rispondere a titolo di colpa o di dolo, abbia provocato un danno ingiusto risarcibile. Evocando il danno evento ed il danno conseguenza il Tribunale ha inteso, negando la ricorrenza del primo, escludere che la condotta antigiuridica abbia leso un interesse giuridicamente rilevante e, escludendo la sussistenza del secondo, che la stessa condotta abbia provocato una conseguenza pregiudizievole nella sfera giuridica dell’odierna ricorrente che, attraverso i meccanismi propri della responsabilità civile, fosse necessario allocare diversamente, cioè non essere lasciata lì dove si era verificata, ma porla a carico del soggetto agente”.

[23] Ancora in materia di pratiche commerciali scorrette Labella, Pratiche commerciali scorrette e rimedi civilistici, cit., p. 733 – 734, osserva che “la collocazione della responsabilità del professionista nell’alveo di quella extracontrattuale desta però più di una perplessità atteso – come si vedrà a breve – che il teatro delle pratiche commerciali scorrette è per lo più la fase precedente e comunque contingente al compimento della determinazione negoziale” e conclude nel senso che “considerando che il professionista è legato al consumatore da un vinculum iuris che prende corpo in obblighi di comportamento tanto nella fase di pubblicizzazione del prodotto o del servizio offerto indistintamente quanto in quello delle trattative con il consumatore che, attirato dal messaggio o dalle modalità di reclame, entra in contatto diretto con il professionista, il vero nodo consiste  nell’identificazione dei casi in cui sorga la responsabilità da inadempimento di un contratto già concluso e in quali quella precontrattuale”.

[24] Si rinviene un cospicuo filone giurisprudenziale in argomento. Cfr. ad es. Cass., 5 luglio 2019, n. 18176, in Rep. Foro it., 2019, Concorrenza (disciplina), n. 25, secondo cui “nel giudizio instaurato ai sensi dell’art. 33, 2° comma, l. n. 287 del 1990 per il risarcimento dei danni derivanti da illeciti anticoncorrenziali, i provvedimenti assunti dall’autorità garante per la concorrenza e il mercato (AGCM) e le decisioni del giudice amministrativo, che eventualmente abbiano confermato o riformato quei provvedimenti, costituiscono prova privilegiata in relazione alla sussistenza del comportamento accertato o della posizione rivestita sul mercato e del suo eventuale abuso”, nonché, in anni meno recenti, Cass., 13 febbraio 2009, n. 3640, in Giur. dir. ind., 2009, p. 144, secondo cui “nel giudizio instaurato, ai sensi dell’art. 33, 2º comma, l. n. 287 del 1990, per il risarcimento dei danni derivanti da intese restrittive della libertà di concorrenza, pratiche concordate o abuso di posizione dominante, sebbene le conclusioni assunte dall’autorità garante per la concorrenza ed il mercato, nonché le decisioni del giudice amministrativo che eventualmente abbiano confermato o riformato quelle decisioni, costituiscano una prova privilegiata, in relazione alla sussistenza del comportamento accertato o della posizione rivestita sul mercato e del suo eventuale abuso, ciò non esclude che sia possibile per le parti offrire prove a sostegno di tale accertamento o ad esso contrarie (principio espresso dalla suprema corte in tema di antitrust, in relazione al boicottaggio, con effetti distorsivi sulla concorrenza, posto in essere da un’associazione di categoria di consulenti di lavoro ai danni di una società produttrice di software per l’elaborazione di paghe e contributi previdenziali)”.

[25] Cfr. Cass., 17 gennaio 2019, n. 1070, la cui massima prevede che per “la responsabilità solidale dei danneggianti, l’art. 2055, 1° comma, c.c. richiede solo che il fatto dannoso sia imputabile a più persone, ancorché le condotte lesive siano fra loro autonome e pure se diversi siano i titoli di responsabilità di ciascuna di tali persone ed anche nel caso in cui siano configurabili titoli di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, atteso che l’unicità del fatto dannoso considerata dalla norma suddetta deve essere riferita unicamente al danneggiato e non va intesa come identità delle norme giuridiche da essi violate”.

[26] In dottrina, vedi per tutti Busnelli, L’obbligazione soggettivamente complessa, Milano, 1974, Gnani, La responsabilità solidale – Art. 2055, Milano, 2005, nonché Orlandi, La responsabilità solidale. Profili delle obbligazioni solidali risarcitorie, Milano 1993. Cfr. inoltre, più di recente, D’Adda, La solidarietà risarcitoria nel diritto privato europeo e l’art. 2055 c.c. italiano: riflessioni critiche, in Riv. dir. civ., 2016, p. 279.

[27] In questo senso, fra gli altri, sempre D’Adda, La solidarietà risarcitoria nel diritto privato europeo e l’art. 2055 c.c. italiano: riflessioni critiche, cit., p. 284.

[28] In questo senso Toschi Vespasiani, Commento all’art. 17, Cod. Consumo, in De Cristofaro – Zaccaria (a cura di), Commentario breve al diritto dei consumatori, cit., 115.

[29] Toschi Vespasiani, Commento all’art. 14, Cod. Consumo, in De Cristofaro – Zaccaria (a cura di), Commentario breve al diritto dei consumatori, cit., 111, rilevava la cumulabilità, in tema di pubblicità dei prezzi, delle disposizioni specifiche con le norme sulla pubblicità ingannevole.

[30] Si rileva che l’art. 20, comma 2, Cod. Consumo, contiene la clausola generale in base alla quale “una pratica commerciale è scorretta se è contraria alla diligenza professionale, ed è falsa o idonea a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico, in relazione al prodotto, del consumatore medio che essa raggiunge o al quale è diretta o del membro medio di un gruppo qualora la pratica commerciale sia diretta a un determinato gruppo di consumatori”. Si rinviene un commento aggiornato in Massa F., Commento all’art. 20, Cod. Consumo, in A. Barba, A. Barenghi, A. Cuffaro (a cura di), Codice del Consumo, 2023, p. 132 ss.

[31] Per un commento analitico aggiornato della disposizione, si rinvia a Massa F., Commento all’art. 20, Cod. Consumo, cit., p. 171 ss.

[32] Invero, il fenomeno viene “catalogato “, secondo alcune fonti, nel 2016 quando la Toblerone annunzia la decisione di ridurre il peso delle note barrette di cioccolato, senza ridurre il prezzo (cfr. sempre www.france24.com, 1° settembre 2023).

[33] Nell’audizione citata, si legge “La shrinkflation è un fenomeno nuovo però se lo si collega agli interventi fatti dall’Autorità in tutto il settore della produzione agroalimentare e della grande distribuzione, la questione riguardava sempre un vanto, un claim che poi non corrispondeva alla realtà. Ad esempio, “meno 50 per cento di zuccheri” ma senza sapere rispetto a cosa. La difficoltà è che deve esser chiaro che se la confezione formalmente è da 100 ma è 80 di contenuto, quell’80 deve essere immediatamente percepibile dal consumatore sull’etichetta, essendo irrilevante ai nostri fini che si utilizzi un cartone da 100 per metterci 80 di prodotto. Se tutto questo non accade e quindi, oltre alla sgrammatura, abbiamo anche un’informazione incompleta o imperfetta, in astratto il caso ci può essere. Però, ripeto, mi sto riferendo a ipotesi sulle quali ancora non abbiamo svolto procedimenti, se non a livello di analisi preliminari”.

[34] Una ricerca recentemente effettuata non, in effetti, portato alcun risultato.

[35] La fattispecie è stata analizzata nel procedimento PS12572 – Polifra-Monorotolo Deljs, in AGCM, Bollettino, 19.10.2023, n. 39, avente ad oggetto “l’ingannevolezza del claim ‘100 metri’ riportato sulla confezione del monorotolo compatto da cucina a marchio Deljs, nonché nel catalogo aziendale online (visionabile all’indirizzo http://www.polifra.it/download/ Catalogo_Deljs.pdf)”; nel provvedimento conclusivo si rileva che “sotto il profilo eziologico, la pratica commerciale appare riconducibile al fenomeno della c.d. shrinkflation, ossia alla riduzione delle dimensioni o del peso di un prodotto, mantendendo invariato il prezzo, a fronte dell’aumento dei costi di produzione, dell’inflazione o dell’aumento della pressione competitiva. Nella fattispecie in esame, infatti, è stata realizzata una riduzione quantitativa del prodotto (in termini di minor lunghezza del monorotolo Deljs) posta in essere al fine di fronteggiare gli aumenti dei costi delle materie prime e dell’energia, accompagnata dalla falsa indicazione – presente sul packaging del prodotto e nel catalogo pubblicato sul sito web aziendale – della reale lunghezza del monorotolo. Ciò ha comportato, dunque, il permanere, per alcuni mesi, dell’ingannevole indicazione relativa alla quantità di prodotto (“100 metri”), nonostante l’intervenuta riduzione quantitativa del prodotto stesso”.

[36] L’individuazione dei rimedi di private enforcement, in assenza di specifiche previsioni normative era stata analizzata da V. Di Cataldo, Pratiche commerciali scorrette e sistemi di enforcement, in Giur. comm., 2011, I, p. 803 e ss. CFr, poi, fra gli altri, in tempi più prossimi A. Genovese, Profili di public e private enforcement dei divieti di pratiche commerciali scorrette. Anche con riferimento ai settori regolati, in Giur. comm., 2022, I, p. 766 e ss.

[37] Come è noto, la direttiva (UE) 2019/2161 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 novembre 2019, in parola, modifica la direttiva 93/13/CEE del Consiglio e le direttive 98/6/CE, 2005/29/CE e 2011/83/UE del Parlamento europeo e del Consiglio per una migliore applicazione e una modernizzazione delle norme dell’Unione relative alla protezione dei consumatori.

[38] Per un primo commento alla norma riformata, cfr. Stella, Commento all’art 27, Cod. Consumo, in A. Barba, A. Barenghi, A. Cuffaro (a cura di), Codice del Consumo, Milano, 2023, p. 265 e ss.

[39] Si ricorda che il comma 15bis dell’art. 27, Codice del Consumo, risulta recepire l’art. 11bis della direttiva UE/2019/2161 secondo cui “i consumatori lesi da pratiche commerciali sleali devono avere accesso a rimedi proporzionati ed effettivi, compresi il risarcimento del danno subito dal consumatore e, se pertinente, la riduzione del prezzo o la risoluzione del contratto. Gli Stati membri possono stabilire le condizioni per l’applicazione e gli effetti di tali rimedi. Gli Stati membri possono tener conto, se del caso, della gravità e della natura della pratica commerciale sleale, del danno subito dal consumatore e di altre circostanze pertinenti. Detti rimedi non pregiudicano l’applicazione di altri rimedi a disposizione dei consumatori a norma del diritto dell’Unione o del diritto nazionale” (norma, che a sua volta, è il portato del considerando n 16, in base al quale “Gli Stati membri dovrebbero garantire la disponibilità di rimedi per i consumatori danneggiati da pratiche commerciali sleali per eliminare tutti gli effetti di tali pratiche scorrette. L’adozione di un quadro ben preciso per i rimedi individuali faciliterebbe l’esecuzione a livello privato. Il consumatore dovrebbe poter ottenere il risarcimento dei danni e, se pertinente, una riduzione del prezzo o la risoluzione del contratto, in modo proporzionato ed efficace. Agli Stati membri non dovrebbe essere impedito di mantenere o introdurre il diritto ad altri rimedi, come la riparazione o la sostituzione, per i consumatori danneggiati da pratiche commerciali sleali per garantire l’eliminazione totale degli effetti di tali pratiche. Agli Stati membri non dovrebbe essere impedito di stabilire le condizioni per l’applicazione e gli effetti dei rimedi per i consumatori. Nell’applicare tali rimedi si potrebbe tener conto, se del caso, della gravità e della natura della pratica commerciale sleale, del danno subito dal consumatore e di altre circostanze pertinenti, quali la condotta scorretta del professionista o l’inadempimento del contratto”. La norma, originariamente, disciplinava la tutela giurisdizionale in materia di pratiche commerciali scorrette in modo frammentario. La cognizione dei ricorsi avverso le decisioni adottate dall’Autorità apparteneva, per espressa previsione (art. 27, comma 13, Codice del consumo), alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (in particolare del TAR del Lazio). La disposizione è venuta meno per effetto dell’entrata in vigore del Codice sul processo amministrativo Il successivo comma 15, del medesimo art. 27, precisa, comunque, che è fatta salva la giurisdizione del giudice ordinario in materia di atti di concorrenza sleale, a norma dell’articolo 2598 del codice civile, nonché, per quanto concerne la pubblicità comparativa, in materia di atti compiuti in violazione della disciplina sul diritto d’autore protetto dalla legge 22 aprile 1941, n. 633, e successive modificazioni, e dei marchi d’impresa protetto a norma del decreto legislativo 10 febbraio 2005, n. 30, e successive modificazioni, nonché delle denominazioni di origine riconosciute e protette in Italia e di altri segni distintivi di imprese, beni e servizi concorrenti. In relazione alle pratiche commerciali scorrette riteneva – già in tempi passati – esperibili tutti i rimedi attivabili innanzi all’autorità giudiziaria ordinaria De Cristofaro, Le pratiche commerciali scorrette nei rapporti fra professionisti e consumatori: il D.Legisl. n. 146 del 2 agosto 2007, attuativo della direttiva 2005/29/CE, in Studium iuris, 2007, p. 1193. Vedi anche Id., Le conseguenze privatistiche della violazione del divieto di pratiche commerciali sleali: analisi comparata delle soluzioni accolte nei diritti nazionali, in Rass. dir. civ, 2010, 880 e ss. Cfr. anche Bertolino, In caso di violazione di interessi collettivi dei consumatori in materia di pubblicità ingannevole è competente l’autorità Garante della Concorrenza e del Mercato o il giudice ordinario?, in Giur. It., 2005, p. 1019. Granelli, Le “pratiche commerciali scorrette” tra imprese e consumatori: l’attuazione della direttiva 2005/29/CE modifica il codice del consumo, in Obbligazioni e Contratti, 2007, p. 777.

Articoli simili

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here

News

Commenti