di Stefano Sorvino, Direttore Generale dell’Agenzia Regionale per la Protezione dell’Ambiente – Campania
Abstract
Il tema della dirigenza, ed in particolare della qualità dei suoi livelli apicali, risulta di perdurante attualità e centralità nella necessaria prospettiva di rinnovamento della pubblica amministrazione indotta dall’attuazione del PNRR e dei grandi processi di transizione.
Il ruolo dirigenziale ha vissuto una significativa evoluzione, dalla enucleazione della carriera con il riordino del 1972 alle grandi riforme degli anni ’90 all’insegna del principio di separazione tra politica ed amministrazione, contraddetto però dall’introduzione di meccanismi di “spoils system” all’italiana, parzialmente corretti e ridimensionati dalla giurisprudenza costituzionale.
Oggi si ripropongono, anche rispetto al tema del “gabinettismo” consolidato ed in espansione, aggiornate esigenze di sviluppo qualitativo delle potenzialità della dirigenza e dei suoi livelli più elevati, nell’ottica del miglioramento dei processi di formazione e reclutamento e della promozione del “valore pubblico”.
Parole chiave: Dirigenza pubblica – Spoils system
Sommario: 1. Introduzione. – 2. Le basi della carriera dirigenziale. – 3. Lo «spoils system». – 4. Prospettive di rinnovamento e rilancio.
Nell’analisi del perdurante stallo amministrativo e burocratico del nostro Paese merita apposita considerazione il tema specifico della dirigenza, della distinzione/separazione dei suoi compiti da quelli della sfera politica e, in particolare, dell’adeguatezza della dirigenza apicale o di vertice (alta dirigenza o “top management“) -soprattutto ministeriale- a cui tra l’altro, in parte, si applica il controverso “sistema delle spoglie[1]” di derivazione americana.
Quest’ultimo è stato introdotto in Italia alla fine degli anni ’90, nell’ambito delle riforme “Bassanini” – per certi versi in controtendenza rispetto alla evoluzione precedente- , con un meccanismo successivamente consolidato dalla legge “Frattini” n. 145/2002, ma è stato circoscritto nella sua applicazione dagli interventi della Corte Costituzionale del 2005 e 2007 e merita oggi una riflessione critica, per i suoi effetti negativi e limitanti dell’autonomia ed autorevolezza dell’alta dirigenza.
Una valutazione dedicata meritano oggi la responsabilità ed il ruolo della dirigenza dello Stato e degli enti pubblici e territoriali – considerata nella sua stratificata evoluzione-, i criteri di reclutamento, formazione, valutazione, premialità ed avanzamento, il tema della specificità della responsabilità dirigenziale e, soprattutto, di come potrebbe conseguirsi un suo più elevato livello di sviluppo qualitativo alla luce degli attuali processi di trasformazione della pubblica amministrazione, stimolati anche dal processo di avanzamento del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR).
Nel suo ambito distinguiamo l’alta dirigenza statale, soprattutto ministeriale (Capi Dipartimento, Segretari e Direttori Generali) – oggi , per lo strato più elevato, governata dalle regole dello “spoglio”[2]– ed il variegato management delle aziende, agenzie e società pubbliche, in cui si articola la galassia amministrativa (fra cui gli enti del servizio sanitario, a cui lo spoils system non si applica), alla guida di organizzazioni pluriarticolate e complesse ed a cui si richiedono performance professionali elevate ed innovative.
2. LE BASI DELLA CARRIERA DIRIGENZIALE
La carriera dirigenziale in origine non era enucleata in via specifica dal Testo unico degli impiegati civili dello Stato (DPR n. 3/1957), perchè ricompresa nell’unico insieme delle posizioni direttive, e pertanto la dirigenza, pur svolgendo una significativa funzione ausiliaria dei vertici politici – cui era allora legata da un rapporto di dipendenza gerarchica (configurandosi il ministro come capo dell’amministrazione) – non rivestiva, fino alla riforma del 1972, il rango di categoria apicale dell’amministrazione specificamente riconosciuta dall’ordinamento.
Il decreto del presidente della repubblica n. 748/1972[3] istituì in Italia la “nuova” carriera dirigenziale, in senso proprio, formalmente enucleata da quella direttiva, introducendo nell’amministrazione la figura del dirigente dotato di attribuzioni specifiche – quindi un organo amministrativo-, operante in un determinato ambito senza necessità di delega da parte del ministro, in modo da superare la storica logica di accentramento (di ascendenza cavouriana) su cui fino ad allora si era fondata l’organizzazione dicasteriale.
La dirigenza statale veniva articolata nelle tre originarie qualifiche di primo dirigente, superiore e generale – diversamente dagli enti locali dove erano previsti due soli livelli dirigenziali- e, soprattutto, veniva configurata la responsabilità dirigenziale di risultato, di tipo nuovo ed aggiuntivo rispetto alle tradizionali tipologie di responsabilità gravanti sul resto dell’impiego pubblico (responsabilità penale, civile ed amministrativa), da cui i dirigenti sono venuti nettamente a differenziarsi.
Sul piano oggettivo, la sopravvenuta codificazione, da parte della legge generale sul procedimento del 1990[4] – in uno alla legge 142/90 sull’ordinamento locale- dei criteri di economicità, efficacia ed efficienza (le cosiddette “3 E” per la disciplina dei servizi pubblici locali) ha nel frattempo offerto le basi anche formali per l’evoluzione del sistema amministrativo verso un principio di legalità sostanziale e la connessa evoluzione della responsabilità dirigenziale in senso manageriale e di risultato, che oggi può manifestarsi nella duplice forma della inosservanza delle direttive e del mancato raggiungimento dei risultati (art. 21 Dlgs n. 165/2001).
In questa ottica dovrebbe rilevare non tanto il fatto che il dirigente sia più o meno osservante dei propri doveri formali, quanto piuttosto che i risultati complessivi della sua azione siano corrispondenti in senso quantitativo e qualitativo alle ragionevoli attese di risultato e di conseguimento degli obiettivi prefissati.
Tuttavia, nonostante l’incisivo riordino del 1972 abbia conferito al profilo dirigenziale uno status autonomo ed incisivo, fortemente sviluppato dalle successive riforme degli anni ‘90, il suo effetto sostanziale si è manifestato in modo piuttosto limitato e parziale, sia per la perdurante ingerenza degli organi politici nelle pratiche di gestione, sia perchè gli stessi dirigenti – come osserva il prof. Melis- si sono mostrati in concreto piuttosto riluttanti ad esercitare in modo incisivo i nuovi poteri con l’assunzione delle correlative responsabilità[5]. “Il rapporto della dirigenza con la politica è stato caratterizzato o da un’eccessiva distanza o da una patologica prossimità oppure da indifferenza rispetto ai fini delle politiche che avrebbe dovuto interpretare”.
Il sostanziale insuccesso della prima riforma della dirigenza del 1972 ha contribuito a propiziare il varo del decreto legislativo n. 29/93 -nell’ambito del più ampio riordino del pubblico impiego, all’insegna del risanamento della finanza pubblica – con il decisivo potenziamento del ruolo e della responsabilità dirigenziale, nella sua ancora più netta separazione dalla sfera dell’indirizzo politico, la cui disciplina è ora coordinata nel Testo unico/Dlgs n. 165/2001.
La riforma del 1993, anticipata per gli enti locali dalla legge precorritrice n. 142/90 sulle autonomie[6], ha distinto e separato nitidamente l’ambito politico di governo dagli organi elettivi e rappresentativi da quello organizzativo-gestionale di competenza amministrativa. Essa ha sancito in modo netto il criterio/principio che le funzioni di indirizzo e controllo sono affidate al corpo politico e gli atti di gestione ed organizzazione alla struttura dirigenziale, che ne assume la diretta responsabilità, disponendo delle corrispondenti risorse (finanziarie, umane e tecnico-strumentali) e quindi della necessaria capacità di spesa, preordinata alla realizzazione degli obiettivi.
È venuto così definitivamente meno – ove fossero ancora perdurati dubbi ed ambiguità – il tradizionale rapporto di natura gerarchica tra vertice politico (ministro, presidente, sindaco) e corpo dirigente, sostituito da un più tenue, ma anche più complesso ed impegnativo, rapporto di direzione politica in virtù del quale l’organo di governo deve emanare direttive ed indirizzi, indicando obiettivi e vincoli di risultato ma non disposizioni gestionali ed ordini puntuali.
Oggi il ceto politico non può più disporre in forma diretta della gestione esecutiva, come in passato, ma è invece tenuto ad esprimere linee di indirizzo in cui dovrebbe tradursi il background di contenuti e programmi puntuali, articolati in obiettivi quantificati e quantificabili, cronoprogrammi scadenzati, vincoli definiti, risultati misurabili senza limitarsi a direttive rituali e general/generiche, come invece avviene nella prassi odierna.
Il rapporto tra politica ed amministrazione dovrebbe articolarsi su più piani esprimendosi per ambiti differenziati: quello amministrativo generale di competenza del vertice elettivo; l’indirizzo intermedio attribuito alla sfera dell’alta dirigenza e l’indirizzo strettamente operativo o esecutivo spettante alla dirigenza di livello inferiore o periferico, con la crescita di rango di una burocrazia in origine semplice titolare di uffici ed invece oggi costituita da organi con responsabilità provvedimentale anche a rilevanza esterna.
Un lustro dopo, il decreto legislativo n. 80/1998[7] ha completato e consolidato il processo di privatizzazione della dirigenza, estendendolo anche ai dirigenti generali dell’amministrazione pubblica, oltre ad intervenire in modo innovativo sui profili processuali per i criteri di riparto della giurisdizione in materia e, in particolare, sui poteri del giudice amministrativo.
Tuttavia poco dopo il pieno riconoscimento di incisivi poteri gestionali, il ruolo dell’alta dirigenza è stato in parte eroso e ridimensionato dalla forzata introduzione dello “spoils system”, mutato dalla prassi di derivazione americana, disciplinato dalle normative “bipartisan” proposte dai ministri Bassanini e Frattini, rispettivamente del 1998 e 2002, alcuni anni dopo la privatizzazione e parziale dismissione del sistema delle partecipazioni statali (quasi a compensare la classe di governo dopo la cessazione del tradizionale serbatoio di lottizzazioni e nomine politiche con nuovi margini di manovra). Su tale istituto, di applicazione innovativa per il nostro Paese, è intervenuta più volte la giurisprudenza costituzionale, con articolate pronunce per circoscriverne motivatamente l’attuazione, ferma restando la legittimazione di base di un meccanismo fiduciario di selezione che ha obiettivamente indebolito la condizione di autonomia ed autorevolezza dei vertici della dirigenza pubblica.
La traduzione letterale dell’anglismo “spoil system” è eloquentemente “sistema del bottino” ed indica la pratica – nata nell’800 negli Stati Uniti in rapporto ai mandati presidenziali – secondo cui i più alti gradi della dirigenza amministrativa (per alcune centinaia di incarichi, come ad esempio gli ambasciatori) cessano automaticamente dalle loro cariche al cambio di governo per essere rimpiazzati, su base fiduciaria, dalla nuova amministrazione eletta.
Il meccanismo delle spoglie, sul piano teorico, dovrebbe rispondere ad un doppio movente. Da un lato, la finalità apprezzabile di consentire all’organo di vertice di avvalersi agilmente di un “team” di alta amministrazione, scelto secondo criteri di sintonia fiduciaria con i propri indirizzi; dall’altro l’esigenza utilitaristica – comprensibile solo sul piano del consenso politico- di disporre e ricavare spazi nel cosiddetto “sottogoverno” al fine di gratificare con il conferimento di cariche pubbliche, ad esito della vittoria elettorale, un numero significativo di sponsors e supporters che vi hanno attivamente concorso.
Il legislatore italiano ha ritenuto che “il sistema del bottino” – di cui, come rileva Cassese[8], vi sono molteplici varianti e possibili applicazioni- non assuma necessariamente una connotazione spregiativa e deteriore ma piuttosto moralmente neutra, potendo costituire entro certi limiti una prassi ammissibile e legittima di conferimento delle più alte cariche amministrative “intuitu personae“.
La Consulta, in particolare con le sentenze n. 103 e 104 del 2007[9] – dichiarando costituzionalmente illegittimo l’art. 3, comma 7, della legge “Frattini” n. 145/2002- ha circoscritto l’ammissibilità del discutibile istituto nei suoi presupposti concettuali, restringendolo solo ai ruoli effettivamente apicali dello Stato ed escludendo dalla sua applicazione la più ampia dirigenza intermedia, quella degli enti regionali e le aziende del servizio sanitario (a cui alcune Regioni, con proprie leggi, avevano impropriamente provato ad applicarlo[10]).
Al dispositivo delle “spoglie” dovrebbe contrapporsi in teoria il più lineare ed oggettivo modello del “merit system” (sistema meritocratico) – meglio aderente ai nostri principi costituzionali- secondo cui l’assegnazione degli incarichi non deve tener conto del criterio di affiliazione o fidelizzazione politica (“political patronage“) ma affidarsi piuttosto ad una valutazione asettica di capacità e preparazione tecnica, che si verifica solo attraverso la più seria competizione concorsuale (“competitive examination“).
La Corte Costituzionale, come si è detto, è intervenuta sul punto in modo articolato e a più riprese, chiamata sia a sindacare la normativa statale di base che alcune leggi regionali (Abruzzo, Calabria, Lazio), volte allo spregiudicato tentativo – dichiarato costituzionalmente illegittimo- di estendere l’opinabilissimo meccanismo delle “nomine di fiducia” anche ai Direttori Generali degli Enti del servizio sanitario.
In particolare la Consulta, con la citata sentenza n. 104/2007, ha abrogato il sistema regionale delle spoglie, dichiarando l’illegittimità costituzionale delle leggi regionali del Lazio del 2004 e 2005, nella parte in cui prevedevano che i Direttori Generali delle Asl decadessero dalla carica il novantesimo giorno successivo alla prima seduta del Consiglio regionale (salvo conferma con le stesse modalità previste per la nomina[11]). In attuazione delle stesse norme la Regione Lazio aveva deliberato, nell’estate 2005, la rimozione dall’incarico di tutti i Direttori Generali ed il Consiglio di Stato da essi adito, senza accordare la tutela cautelare, aveva rimesso la questione di legittimità al giudizio della Corte Costituzionale, che l’ha ritenuta fondata.
Per la giurisprudenza costituzionale il meccanismo delle spoglie è obiettivamente incompatibile con i principi di imparzialità, buon andamento e concorsualità espressi dagli articoli 97 e 98 e, soprattutto, inconciliabile con le caratteristiche strutturali del comparto della sanità, in quanto le aziende locali ed ospedaliere – erogando uno dei più delicati servizi pubblici- devono poter perseguire i fondamentali obiettivi posti dall’art 32 della Costituzione, in posizione di autonomia ed immunità da parte dei potenziali condizionamenti di questo o quello schieramento politico[12]. Lo spoils system, almeno come applicato da alcune Regioni, risultava in stridente contraddizione con lo spirito delle grandi riforme degli anni Novanta, miranti a separare definitivamente la sfera politica da quella amministrativo-gestionale, ricomponendo invece in matrimonio spurio la deliberata separazione tra politica e gestione.
Le ripetute pronunce della Corte hanno opportunamente impedito l’applicazione generalizzata di tale pericoloso meccanismo, rimasto contenuto solo allo strato apicale della dirigenza statale, sulla base del riconosciuto criterio dell'”intuitu personae” e non della semplice fiduciarietà – secondo una sottile distinzione concettuale-, in quanto quest’ultima può essere fisiologica solo all’interno del rapporto tra organi politici (Parlamento-governo) ma non è invece estensibile al ben diverso rapporto intercorrente tra governo ed amministrazione, per il doveroso limite di neutralità che deve caratterizzare quest’ultima.
A tal proposito Castiello, nel “Manuale di Diritto sanitario”, cita e stigmatizza un episodio “ante litteram” avvenuto nel secondo dopoguerra, con una conseguente polemica di originale interesse anche per la notevole statura culturale e politica delle personalità coinvolte. Nell’ottobre 1948 il Ministro della pubblica istruzione, il leader democristiano Guido Gonella, con proprio provvedimento, non confermava nell’incarico il Direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa, professor Luigi Russo, in carica dal 1944, notissimo critico letterario e storico della letteratura italiana ma impegnato anche in candidature e prese di posizioni politiche.
In merito alla destituzione del prof. Russo, per motivi politico-ideologici e non tecnici, l’on. Pietro Calamandrei rivolgeva criticamente un’interpellanza al Ministro Gonella, osservando: “Non vorrei che si instaurasse anche in Italia il sistema degli ” spogli” un tempo usato negli Stati Uniti, col quale il nuovo presidente -appena eletto- distribuiva tutti gli uffici ed impieghi pubblici ai suoi elettori, agli appartenenti al proprio partito. . . Questo vorrebbe dire la corruzione di tutta l’amministrazione”.
Alla critica del provvedimento governativo da parte di Calamandrei fece autorevolmente eco Benedetto Croce: ” Anche io ho espresso il parere che il procedimento tenuto dal Ministro verso il Russo non sia stato corretto e che all’operoso presidente della Scuola Normale di Pisa egli doveva accordare un colloquio, spiegargli le ragioni della sostituzione che meditava e se, aveva errori da rimproverarli, contestarglieli”. La interlocuzione di Croce con Calamandrei si concludeva quasi profeticamente: “il provvedimento del Ministro non è stato corretto ed è assai pericoloso come esempio[13]“.
Oggi la funzione dirigenziale – teoricamente valorizzata dal legislatore ma concretamente bistrattata e in parte inespressa nelle sue potenzialità – dovrebbe consistere nella specificazione ed attuazione degli obiettivi definiti dall’organo politico; nella articolazione discrezionale delle modalità operative e nella conseguente modulazione delle tempistiche; nella concreta organizzazione ed impegno del personale dipendente e delle risorse disponibili; nella predisposizione della strumentazione e nella conseguente verifica dell’effettivo e puntuale svolgimento delle attività, anche con l’eventuale adozione – da parte dei dirigenti sovraordinati- di interventi correttivi e sostitutivi rispetto ai livelli sottordinati. Occorre che la dirigenza sia in grado di anticipare i problemi prima che si manifestino; elaborare nuovi progetti piuttosto che seguire prassi e routine; adattare in modo flessibile l’organizzazione e le procedure ai cambiamenti improvvisi che si presentano nella gestione quotidiana.
Tuttavia, nella realtà italiana, sovente i ruoli dirigenziali non riescono a dispiegare adeguatamente i loro impegnativi compiti gestionali ma risultano “ingessati”, anche per effetto della somma di vincoli e lacciuoli derivante sia dalla legislazione ipertrofica ed alluvionale – punteggiata di “norme provvedimento” e disposizioni autoesecutive – che dal sistema disincentivante dei controlli, che contribuisce ad alimentare la cosiddetta “sindrome della firma”, oltre che a causa della inadeguata professionalizzazione per carenze nel reclutamento e nella formazione.
Il prof. Cassese prospetta, sul modello straniero, di introdurre il criterio di reclutamento denominato dagli anglosassoni “fast stream“, cioè quello di “selezionare cento persone, o anche solo trenta l’anno e portarle rapidamente in cima all’amministrazione, in modo da rinvigorire ed innestare grandi qualità e conoscenze al vertice”, attraverso l’inserimento rapido di straordinaria capacità nei gangli della struttura burocratica. Nel Regno Unito o in Francia l’accesso è fondato esclusivamente sul merito, misurato mediante selezioni comparative ed è altresì assicurato un “fast track“, cioè una sorta di corsia preferenziale, per cui si può accedere ai vertici anche se giovani ma molto capaci e meritevoli[14].
Alle fragilità e manchevolezze della struttura dirigenziale corrisponde e risulta speculare – nei ministeri come nelle altre grandi amministrazioni, anche territoriali- l’espansione invasiva e lo sviluppo ipertrofico delle strutture di staff e, in particolare, degli uffici di gabinetto (con il crescente e consolidato fenomeno del “gabinettismo”). Essi sono quasi sempre diretti da èlite esterne alle stesse amministrazioni, provenienti da circuiti di eccellenza (Consiglieri di Stato, della Corte dei Conti, Avvocati dello Stato, funzionari parlamentari, prefetti, diplomatici ecc), che oggi costituiscono veri e propri uffici di ” stato maggiore” – ponendosi come robuste intercapedini tra politica ed amministrazione- pronti ad esercitare anche invasive funzioni di supplenza rispetto alla mancate assunzioni di responsabilità ed dei ruoli dirigenziali[15].
4. PROSPETTIVE DI RINNOVAMENTO E RILANCIO
I profili meritevoli di maggiore impegno per imprimere una svolta sono quelli di migliorare i processi sia reclutamento che di formazione, laddove la dirigenza del nostro Paese risente storicamente della mancanza di un istituto come la mitica ENA, l’Ecole National d’Administration – fucina di classi dirigenti amministrative e politiche- fondata in Francia nel secondo dopoguerra dal generale Charles De Gaulle (sostituita nel 2022 dall’Institute National su Service Public-INSP) e di adeguati centri e strutture equivalenti di alta formazione generale, a cui si sta provando a porre rimedio con la maggiore qualificazione della Scuola Nazionale di Amministrazione (SNA) che, da alcuni anni, ha accorpato le varie scuole di amministrazione preesistenti.
Un obiettivo fondamentale è quello di orientare adeguatamente i percorsi formativi della odierna dirigenza verso la costruzione interdisciplinare di una compiuta cultura manageriale e di risultato, promuovendo – come oggi si dice – la “produzione di valore pubblico”, con la continua e flessibile integrazione tra indirizzi teorici e linee pratiche, mediante la costante apertura verso le nuove questioni gestionali ed esplorando gli orizzonti delle competenze oltre gli argomenti classici della formazione pubblicistica e l’approfondimento normativo degli istituti[16], nei termini di una dinamica e produttiva contaminazione tra conoscenze tecniche e giuridico-umanistiche.
Dai temi abituali della contabilità, degli appalti, della contrattualistica e dell’impiego pubblico in senso giuridico, oggi integrato dal tema emergente del lavoro agile, bisogna allargare la visuale alle tecniche ed ai modelli aziendali più evoluti applicati all’amministrazione erogatrice di servizi, ai processi di aziendalizzazione e pianificazione integrata – che oggi si esprime innanzitutto attraverso il Piano integrato di attività ed organizzazione (PIAO) – alla corretta focalizzazione delle potenzialità del partenariato pubblico-privato, alle metodologie di confronto con gli stakeholders di settore, ai criteri, indicatori e standard per la definizione della qualità dei servizi da rendere quotidianamente all’utenza ed alla cittadinanza.
Occorre, soprattutto, approcciarsi alla gestione delle risorse umane assegnate alle unità dirigenziali non solo sotto il profilo scontato dell’inquadramento istituzionale ma anche dell’esplorazione innovativa delle strategie e politiche organizzative e del cambiamento, della leadership dei processi, delle capacità psicologiche, dello sviluppo delle “soft skill”, delle tecniche di gestione e valutazione delle performance. Le competenze trasversali del personale pubblico nella strategia di attuazione del PNRR inseriscono la transizione amministrativa, digitale ed ecologica delle amministrazioni pubbliche, come ribadito dalla Direttiva del 2023 del Ministro per la pubblica amministrazione[17].
La gestione delle risorse finanziarie – fondamentale connotato del ruolo dirigenziale- dovrebbe focalizzarsi sui temi della programmazione e pianificazione integrata, sui criteri di valutazione economica dell’attività amministrativa, sull’effettiva implementazione del controllo di gestione negli enti ed aziende pubbliche, che da principio di tendenza dovrebbe diventare il “cruscotto” di riferimento della macchina amministrativa per misurare le macro-grandezze ed orientare l’azione strategica di manager e direttori generali[18].
Argomenti in aggiornamento continuo e di competenza trasversale sono le responsabilità amministrativa e professionale, il sistema in evoluzione dei controlli interni ed esterni, la privacy ed il trattamento dei dati personali, il lavoro agile, il processo di digitalizzazione e la sicurezza cibernetica, l’etica, l’inclusione e la parità di genere, il diritto di accesso nella sua più ampia latitudine in uno all’anticorruzione, integrità e trasparenza (legge n. 190/2012), la salute e la sicurezza negli ambienti di lavoro (Dlgs n.81/2008), l’attività di informazione e comunicazione delle amministrazioni (legge n. 150/2000).
In ogni caso la bussola dell’azione amministrativa dovrebbe essere oggi concepita in termini di efficacia, cioè come rapporto tra i fini perseguiti ed i risultati ottenuti nonché in termini di bontà sostanziale dei risultati stessi, senza che ciò naturalmente significhi irrilevanza degli irrinunciabili profili di legittimità e garanzia. Come pacificamente ritenuto dalla più attenta dottrina e giurisprudenza[19], a seguito dell’evoluzione del concetto di discrezionalità amministrativa – avviata dagli anni ’90 dalla legge generale sul procedimento con i successivi aggiornamenti – essa dovrebbe attestarsi sulla trasformazione del rapporto tra legittimità formale e buon andamento sostanziale a vantaggio del secondo. La discrezionalità oggi dovrebbe tendere più alla ricerca dell’utile gestionale, pur nel limite delle norme imperative e della doverosa osservanza della legittimità, che alla mera e formalistica ricerca del “legittimo” sganciata dalla logica sostanzialista degli obiettivi e dei risultati.
Osserva Giacchetti che “non è più sufficiente che le carte siano a posto, secondo la logica tradizionale del burocrate ma occorre anche che gli obiettivi siano raggiunti, secondo la logica del manager”, concludendo paradossalmente che la ricerca esclusiva della legittimità formale può costituire – al limite paradossale – un vero e proprio abuso d’ufficio[20]. In definitiva secondo Calabrò[21] si impone l’aggiornamento della concezione della funzione pubblica, pur sempre finalizzata al perseguimento dell’interesse pubblico “ma meno legata a schemi formali, un’attività per così dire sostanzializzata, improntata a criteri di effettività ed economicità e, quindi, pur sempre più attenta ai risultati e sempre meno alle astrazioni ed alla ritualità”.
Una volta consolidate le basi oggettive e normative del processo di rinnovamento dell’amministrazione in senso manageriale, si ritorna al tema speculare della costruzione delle qualità soggettive dei dirigenti ed alla prospettiva formativa di “creazione del valore pubblico”.
In effetti, da alcuni decenni, il nostro ordinamento ha obiettivamente riconosciuto al ceto dirigenziale una più che significativa dignità professionale, qualificata da specifiche prerogative di autonomia e da uno statuto consolidato dalla ormai netta distinzione tra l’ambito di indirizzo e controllo del governo politico e quello di gestione esecutiva della burocrazia dirigenziale, sia pure parzialmente intaccato dallo “spoils system”. Tuttavia, proprio per effetto della fiduciarizzazione e precarizzazione dell’alta dirigenza e dell’inadeguatezza delle modalità di reclutamento e formazione, la condizione professionale dei massimi dirigenti, oggi in Italia con un’età media piuttosto elevata, risulta in parte ancora dequotata rispetto ad amministrazioni pubbliche più evolute ed alle più mobili dinamiche del mercato professionale privato. Essa dovrebbe invece aprirsi all’innesto di maggiori talenti esprimendo tutte le sue potenzialità in una prospettiva di ricambio e reale valorizzazione manageriale, stimolata anche dall’impegnativo processo di attuazione del PNRR, come tassello essenziale di una complessiva ricostruzione della piena funzionalità della nostra pubblica amministrazione, di cui siamo alla affannosa ricerca ormai da decenni.
* Direttore Generale dell’Agenzia Regionale per la Protezione dell’Ambiente – Campania.
[1] Sul tema per un affresco di insieme vedi Melis G. «La dirigenza pubblica in Italia: anello (mancante) di congiunzione tra politica ed amministrazione», 2014 e, recentissimo “Il lavoro pubblico in trent’anni di riforme” (a cura di) Gargiulo, Zoppoli, Edizione Scientifica, Napoli, 2024. Secondo Melis, illustre storico dell’amministrazione, nel nostro Paese una specifica legislazione sulla dirigenza amministrativa si è sviluppata in ritardo e la sua retorica si è rivelata in contraddizione con la traduzione pratica.
[2] Sulle problematiche della dirigenza e le articolate critiche al sistema dello “spoils system” vedi le penetranti analisi di Cassese S. in “La struttura del potere”, Laterza, Bari, 2023 ed “Amministrare la nazione. La crisi della burocrazia ed i suoi rimedi”, Mondadori, Milano, 2022.
[3] Decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 1972, n. 748, «Disciplina delle funzioni dirigenziali nelle Amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo».
[4] Legge 7 agosto 1990, n. 241 “Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi”.
[5] Melis G., “Il rapporto tra dirigenza pubblica e politica” in Rivista “Scienza politica”, n. 50 del 2014. Secondo l’autore “la dirigenza amministrativa si è così auto-esclusa dalle élite nazionali e non c’è mai stata una sua reale mobilitazione negli ambiti decisionali del Paese”.
[6] Legge 8 giugno 1992, n. 142 e ss.mm. “Ordinamento delle autonomie locali”, seguita dopo un triennio dal Decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 “Razionalizzazione dell’organizzazione delle Amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego, a norma dell’articolo 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421”.
[7] Decreto legislativo del 31/03/1998, n. 80, recante “Nuove disposizioni in materia di organizzazione e di rapporti di lavoro nelle pubbliche amministrazioni, di giurisdizione nelle controversie di lavoro e di giurisdizione amministrativa, emanate in attuazione dell’articolo 11, comma 4 della legge 15 marzo 1997, n. 59”.
[8] Cassese S. opere citate.
[9] Sentenza 23 marzo 2007 n. 103 e 104, con cui la Corte Costituzionale ha dichiarato la parziale incostituzionalità dello spoils system fondato sulla fidelizzazione politica piuttosto che sulla fiducia tecnica, e per questo ritenuto violativo dagli articoli 97 e 98 della Costituzione.
[10] Sul tema e sulla giurisprudenza costituzionale in materia di spoils system Cassese S, “Dentro la Corte. Diario di un giudice costituzionale”, Il Mulino, Bologna 2016.
[11] La legge regionale del Lazio n.9/2005 e n. 1/2004 prevedevano che la decadenza dei Direttori generali operasse dal primo rinnovo, successivo alla data di entrata in vigore dello Statuto e che la durata dei contratti dei Direttori delle ASL venisse adeguata di diritto al termine di decadenza dell’incarico.
[12] Castiello F – Tenore V. (a cura di) ” Manuale di diritto sanitario“, II ed., Giuffrè, Milano 2018, par. 4.2 “Lo spoils system” (a proposito del Direttore Generale).
[13] L’episodio è narrato da Castiello, nel manuale citato capitolo I, in riferimento al profilo della asserita incompatibilità dello spoils system con i principi costituzionali di cui agli articoli 97 e 97 Cost..
[14] Cassese, “Amministrare la nazione” e “Le strutture del potere“, citati.
[15] Melis G., Tosatti G., (a cura di), “Il potere opaco. I gabinettisti ministeriali nella storia d’Italia”, Il Mulino, Bologna 2020.
[16] Vedi interessanti e recenti Direttive in tal senso del Ministro per la pubblica amministrazione 23 marzo 2023, n. 2 “Pianificazione della formazione e sviluppo delle competenze funzionali alla transizione digitale, ecologica ed amministrativa promosse dal PNRR”; 28 novembre 2023, n.7 “Nuove indicazioni in materia di misurazione e valutazione della performance individuale” e 2024, “Valutazione delle persone produzione di valore pubblico attraverso la formazione, principi, obiettivi e strumenti”.
[17] Vedi Direttiva del Ministro per la pubblica amministrazione 28/11/2023, “Competenza di leadership” e decreti del 28.9.2022 e 28.6.2023 “Soft skill”.
[18] Con riferimento alla formazione dei Direttori Generali delle Aziende ed Enti sanitari vedi gli interessanti spunti contenuti in FORMEZ, “Il management sanitario: quadri economici, giuridici, organizzativi e clinici”, vol. I – Napoli 2018.
[19] La giurisprudenza dei TAR e del Consiglio di Stato enfatizza l’importanza della bontà sostanziale dei risultati dirigenziali in coerenza con l’accentuarsi della svolta delle responsabilità in termini di risultato, ribadendo che si deve avere di mira non tanto la legittimità dei singoli atti quanto la qualità degli obiettivi raggiuti.
[20] Giacchetti, “Potere discrezionale e controllo giudiziario“, a cura di Parisio, Milano, 1998.
[21] Calabrò, “Il Consiglio di Stato alle soglie del 2000” in Giornale di Diritto Amministrativo.