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I licenziamenti nella stagione breve delle riforme. Principi, fattispecie, regole, tutele nel dialogo tra la dottrina e la giurisprudenza*

LA RILEVANZA DELLA MANCATA AFFISSIONE DEL CODICE DISCIPLINARE

di Giuseppe Leotta**

Premessa metodologica.

Il presente paper è volutamente sintetico e schematico al fine di alleggerire, per quanto possibile, il lavoro dei relatori.

Gli appunti che seguono non hanno la pretesa di affrontare la tematica in maniera compiuta, ma si prefiggono l’obiettivo di rendere conto dello “stato dell’arte”.

Mi riservo, pertanto, ove gli organizzatori lo richiederanno, di rimaneggiare questo scritto per l’eventuale pubblicazione degli atti del convegno.

La de-fascistizzazione della regolamentazione del rapporto di lavoro.

Il codice civile del 1942 ha rappresentato uno degli ultimi interventi con cui il legislatore fascista ha declinato ed applicato il principio cardine della dottrina corporativa dello Stato: l’”interesse superiore della produzione nazionale” (v. art. 2104 cod. civ.) che, unitamente all’”interesse dell’impresa”, andava salvaguardato sottraendolo alle dinamiche proprie del cosiddetto conflitto collettivo, ritenute dannose e già punite sul piano penale (v. artt. 502 e ss. cod. pen.).

In quest’ottica, l’imprenditore è il capo dell’impresa e da lui dipendono gerarchicamente i suoi collaboratori (art. 2086 cod. civ.): i) che possono essere adibiti ad una mansione diversa rispetto a quella di assunzione, se del caso inferiore ovvero anche trasferiti in una differente sede lavorativa (art. 2103 cod. civ. vecchio stile); ii) a cui possono essere irrogate sanzioni disciplinari secondo la gravità delle infrazioni commesse ed in conformità delle norme corporative (art. 2106 cod. civ.); iii) di cui può decidere di “liberarsi” recedendo ad nutum dal contratto di lavoro con il solo onere di dare il preavviso o di corrispondere la relativa modesta indennità sostitutiva (art. 2118 cod. civ.).

Tali diritti potestativi riconosciuti in capo all’imprenditore in ossequio alla visione corporativa delle relazioni (collettive e) individuali di lavoro mal si conciliavano, rectius risultavano in profonda contraddizione, con i principi ed i valori declinati dal Costituente del 1948: su di un piano generale con riferimento alla dignità della persona e, più nello specifico, in relazione al conflitto di classe (artt. 39 e 40 Cost.) quale strumento funzionale all’attuazione del principio di uguaglianza sostanziale implicante il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica economica e sociale del Paese (art. 3 Cost.).

Insomma, la Costituzione ribalta completamente l’approccio corporativo: l’ottica assunta non è più quella dell’imprenditore (che l’art. 3 non menziona neppure), ma quella lavoratori a cui si guarda come singoli e come collettività organizzata.

L’opera di de-fascistizzazione della regolamentazione delle relazioni (individuali e collettive) di lavoro che il Costituente aveva avviato liberalizzando l’attività e l’organizzazione sindacale (art. 39 Cost.) e sancendo il diritto di sciopero per la prima volta nella storia dell’umanità (art. 40 Cost.) necessitava però di essere completata.

Tale obiettivo fu realizzato con l’adozione dello “Statuto dei Lavoratori” (Legge n. 300/1970) – redatto dal Prof. Gino Giugni su incarico del Ministro del Lavoro dell’epoca, Giacomo Brodolini – che, tra le altre cose, i) introdusse il diritto del lavoratore alla promozione nel caso di svolgimento di mansioni superiori per un periodo prolungato nel tempo, i divieti di sua adibizione a mansioni inferiori e di trasferimento, salvo che per comprovate ragioni tecniche organizzative e produttive (v. art. 13 con cui veniva novellato l’art. 2103 cod. civ.); ii) procedimentalizzò l’esercizio del potere disciplinare da parte del datore di lavoro (v. art. 7); iii) rafforzò in maniera decisiva la tutela prevista in caso di licenziamenti individuali dichiarati illegittimi perché assunti in violazione del principio di giustificatezza già introdotto qualche anno prima (con la Legge n. 604/1966, art. 1) per superare il modello codicistico improntato alla cosiddetta libera recedibilità (v. art. 18).

La funzione del codice disciplinare nell’ambito della procedimentalizzazione del potere disciplinare.

Con la disciplina introdotta dall’art. 7 St. Lav., il Legislatore applica il principio di legalità (art. 25 Cost.) al potere disciplinare datoriale e, di conseguenza: i) una determinata condotta non risulta perseguibile sul piano disciplinare ove non sia espressamente prevista come illecito disciplinare (nullum crimen sine lege); ii) le correlate sanzioni devono essere stabilite in maniera espressa e tassativa (nulla poena sine lege).

Pertanto, il datore di lavoro non può prevedere infrazioni e sanzioni a proprio piacimento, ma è obbligato ad «applicare quanto in materia stabilito da accordi e contratti (n.d.r. collettivi) di lavoro ove esistano» (comma 1), ovverosia ciò che viene denominato “codice disciplinare” in cui viene esplicitato il rapporto di corrispondenza fra infrazioni e sanzioni. Tramite specifica regolamentazione aziendale, il datore di lavoro può integrare ovvero, nel caso in cui sia previsto dal dato collettivo, addirittura creare il codice disciplinare tenendo conto delle concrete esigenze dell’impresa (v. Cass. 1717/1978), pur sempre nel rispetto del principio di proporzionalità tra condotta e sanzione.

Il codice disciplinare deve essere portato a conoscenza dei lavoratori «mediante affissione in luogo accessibile a tutti» (comma 1). Ne deriva che, in linea di massima (sul punto si tornerà più avanti), qualora manchi il codice disciplinare ovvero qualora questo non sia portato a conoscenza dei lavoratori nella forma stabilità dalla legge, l’eventuale sanzione irrogata a valle del procedimento risulta affetta dal vizio della nullità (Cass. 5222/1987).

La pubblicità del codice disciplinare: l’affissione in luogo accessibile a tutti.

Per qualche decennio la dottrina ha dibattuto sull’obbligatorietà dell’affissione del codice disciplinare ovverosia, per dirla in altri termini, sull’ammissibilità di mezzi di pubblicità equipollenti quali, ad esempio, la consegna ai lavoratori di una copia del contratto collettivo contenente le norme disciplinari.

Contrari a forme “alternative” di pubblicità, fra i molti, Giugni, Suppiej, Spagnuolo Vigorita, Ferraro, Bortone, Speziale. A favore, meno numerosi, Pera, Balletti, Montuschi ed altri.

Tale contrasto interpretativo, che aveva avuto un riverbero anche in sede di Giurisprudenza legittimità, è stato definito dalle SS.UU. della Suprema Corte con la Sentenza n. 1208/1988 precisando che il codice disciplinare è giuridicamente inefficace se non è portato a conoscenza dei prestatori di lavoro mediante affissione in luogo accessibile a tutti ed escludendo la possibilità di considerare come forme equipollenti di pubblicità mezzi di comunicazione che abbiano quali destinatari i singoli lavoratori individualmente considerati:

«Se è vero che il codice disciplinare aziendale è atto unilaterale ricettizio con funzione normativa…e se la destinataria del codice è la stessa collettività indeterminata – anche perché continuamente variabile – dei lavoratori, ne consegue che in tanto esso produrrà effetti in quanto sia stato reso noto o conoscibile alla collettività cui è destinato; senza tale conoscibilità il codice disciplinare è improduttivo di effetti in quanto giuridicamente inesistente. Ne consegue che l’opzione del legislatore a favore dell’affissione, rispetto ad altri ipotizzabili mezzi di esteriorizzazione di carattere individuale (come ad es., la consegna ai dipendenti dell’intero testo contrattuale o di un estratto contenente le sole disposizioni in materia disciplinare), non è arbitraria, né meramente indicativa ma prescrittiva ed esclusiva, in quanto trova la sua ratio nella natura e nella funzione cui l’atto si riferisce».

Su un piano concreto, è sorto l’ulteriore problema di valutare l’idoneità del luogo dell’affissione al fine della sussistenza del requisito del libero accesso («luogo accessibile a tutti») che la Giurisprudenza di legittimità (Cass. 20733/2007) ha risolto richiamando il principio di comodità dell’accesso:

«Questo obbligo a carico del datore di lavoro non può essere ristretto alla necessità che i locali in cui viene effettuata l’affissione non siano chiusi e che tutti i dipendenti abbiano piena libertà di accedervi senza impedimenti di sorta e senza dover chiedere permessi particolari; la possibilità di recarsi nei locali in cui sono esposte le norme disciplinari deve essere effettiva, non meramente teorica, e perciò rientra nel concetto di libero accesso anche la comodità dell’accesso, la necessità che non sussistano difficoltà particolari. Non sussiste, però, un obbligo di effettuare l’affissione in locali in cui i dipendenti devono passare necessariamente: la norma richiede il libero accesso, quindi accesso non impedito, non difficoltoso, non l’accesso necessitato, non evitabile. Ugualmente la legge non richiede che l’affissione venga effettuata nelle bacheche aziendali, che possono mancare o essere destinate altre comunicazioni, e che comunque non rendono più agevole la lettura delle norme».

Pertanto, sono stati considerati luoghi inaccessibili a tutti: una sede diversa da quella cui è adibito il lavoratore (Cass. 4754/1978); la guardiola del custode; la bacheca aziendale contenente l’avviso di possibile consultazione del codice disciplinare custodito all’interno di un ufficio (Cass. 1861/1990); la bacheca di una organizzazione sindacale. Con l’ulteriore precisazione che ove l’impresa sia articolata in più unità produttive, affissione deve essere contemplata in tutti gli stabilimenti o reparti autonomi e persino in locali di terzi ove l’impresa tenga materiali o persone (Cass. n. 247/2007).

Infine, sotto il profilo temporale, è stato precisato che l’affissione deve essere continua ed ininterrotta nel tempo o quantomeno in atto al momento della condotta del lavoratore che integra l’infrazione disciplinare (Cass. n. 2366/1989).

L’eccezione alla regola: la punibilità delle condotte in violazione del cosiddetto “minimo etico”.

Sennonché, nella seconda metà degli anni Ottanta, la Giurisprudenza di legittimità ha operato un “assestamento” che, a sua volta, può essere considerato un effetto indotto della decisione con cui, componendo un contrasto interpretativo, le SS.UU. avevano affermato la natura ontologicamente disciplinare del licenziamento per giusta causa o per giustificato soggettivo (Cass. n. 4823/1987).

Ed infatti la decisione in parola aveva escluso che la legittimità del recesso per motivi disciplinari fosse subordinata alla esplicita previsione in seno al codice disciplinare delle condotte specificamente vietate e sanzionabili con il licenziamento giacché gli artt. 1 e 3 della Legge n. 604/1966 e l’art. 2119 cod. civ. contenevano già una sufficiente determinazione dei concetti di giusta causa e giustificato motivo soggettivo e, pertanto, non richiedevano la previsione di uno specifico codice di comportamento. Veniva però precisato che il primo comma dell’art. 7 St. Lav. non poteva ritenersi estraneo alla materia del licenziamento disciplinare poiché la tipizzazione delle infrazioni avrebbe assunto rilevanza nei casi in cui il datore di lavoro avesse inteso meglio specificare alcune fattispecie costituenti giusta causa o giustificato motivo soggettivo.

Nel solco di tale statuizione, la Giurisprudenza ha preso ad affermare che il principio di tassatività delle infrazioni del prestatore di lavoro deve essere inteso nel senso di prevedere la distinzione tra comportamenti illeciti relativi all’organizzazione aziendali che si riferiscono a regole ignote alla collettività e perciò conoscibili solo se espressamente previste e comportamenti manifestamente contrari a valori generalmente accettati (e per tale motivo puniti anche penalmente) oppure palesemente in contrasto con l’interesse dell’impresa per cui non risulta necessaria la specifica inclusione nel codice disciplinare in quanto di per sé idonei a manifestare la culpa lata corrispondente al non intelligere quod omnes intellegunt (fra le tante, Cass. n. 197/1989, Cass. n. 3949/1989, Cass. n. 11700/1992, Cass. n. 1422/1996).

Tale impostazione è stata ulteriormente “affinata” e, nel decennio successivo, il principio interpretativo sulla valenza del cosiddetto minimo etico è stato esteso anche con riferimento alle sanzioni conservative: «anche relativamente alle sanzioni disciplinari conservative (e non per le sole sanzioni espulsive) deve ritenersi che, in tutti i casi nei quali il comportamento sanzionatorio sia immediatamente percepibile dal lavoratore come illecito, perché contrario al c.d. minimo etico o a norme di rilevanza penale, non sia necessario provvedere alla affissione del codice disciplinare, in quanto il lavoratore ben può rendersi conto, anche al di là di una analitica predeterminazione dei comportamenti vietati e delle relative sanzioni da parte del codice disciplinare, della illiceità della propria condotta» (v. Cass. n. 17763/04; Cass. n. 56/2007; Cass. 7105/2014).

L’affissione del codice disciplinare nel pubblico impiego.

Il precetto contenuto in seno al comma 1 dell’art. 7 St. Lav. è applicabile anche ai rapporti di lavoro alle dipendenze di pubbliche amministrazioni, ma, a partire dalla cosiddetta riforma Brunetta (D.lgs. n. 150/2009), l’affissione del codice disciplinare in luogo accessibile a tutti è stata “sostituita” dalla pubblicazione sul sito istituzionale, ritenuta equivalente all’affissione all’ingresso della sede di lavoro (v. art. 55, comma 2, D.lgs. n. 165/2001). Si tratta, evidentemente, di una disposizione concepita con il duplice fine di deflazionare il contenzioso e di ridurre sensibilmente il numero delle decisioni sfavorevoli collezionate dalle pubbliche amministrazioni proprio in ragione della mancata affissione del codice disciplinare.

Orbene, se si considerano le novità apportate anche dalla successiva riforma Madia (D.lgs. n.75/2017) e dalla cosiddetta normativa anticorruzione (Legge n. 190/2012 e connesso regolamento attuativo adottato con D.P.R. n. 62/2013 di recente novellato dal D.P.R. n. 81/2023) si può concludere che: i) per gli obblighi di valenza disciplinare derivanti da fonte legislativa (in primis, il D.lgs. n. 165/2001) la conoscenza in capo al lavoratore è presunta (ignorantia legis non exusat); ii) in conformità al settore privato, l’affissione del codice disciplinare non è condizione di punibilità delle infrazioni disciplinarmente rilevanti rientranti nel concetto di minimo etico; iii) le regole comportamentali dettate dai contratti collettivi ovvero contenute nel cosiddetto codice di comportamento dei dipendenti pubblici devono essere portate a conoscenza del lavoratore attraverso affissione “virtuale” sul sito web e/o “fisica” nei luoghi di lavoro poiché, in carenza di tale requisito, l’eventuale sanzione disciplinare irrogata a valle del procedimento disciplinare risulterà viziata da nullità.

Spunti conclusivi.

L’evoluzione giurisprudenziale di cui si è dato conto appare condivisibile.

A patto che, contrariamente a quanto statuito in talune sedi di merito, il concetto di minimo etico non venga ulteriormente dilatato ad uso e consumo dei datori di lavoro così costringendo la giurisprudenza di legittimità ad arginare tale deprecabile tendenza interpretativa.


* Lucca – Convento di San Cerbone, 8, 9 e 10 novembrer 2024

** Dottore di ricerca in diritto sindacale e del lavoro, professore di diritto dello spettacolo nel Conservatorio di Musica “S. Cecilia” di Roma, avvocato in Roma.

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