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Disfunzioni, vuoti normativi e fratture sistematiche causate al sistema giuridico dalla normativa emergenziale pandemica. La Giustizia Contabile tra intenti inquisitori ed esigenze di razionalità. Il difficile nodo dell’applicabilità al Direttore Sanitario collocato in quiescenza dell’art. 2 bis, comma 5 del DL 18/2020, dell’art. 10 comma 5 bis del DL 24 marzo 2022 n. 24 e del comma 4 bis dell’art. 36 del D.L. 21 giugno 2022 n. 73

dell’Avv. Prof. Adriano Tortora

1. Premessa normativa: la disciplina sul collocamento in quiescenza del personale pubblico tra esigenze di bilancio e promozione del lavoro giovanile.

L’art. 5, comma 9, del D.L. n. 95/2012 convertito, con modificazioni, dalla L. n. 135/2012, successivamente novellato dall’art. 6, comma 1, del D.L. n. 90/2014, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 114/2014 e, di seguito, riformulato dall’art. 17, comma 3, della L. n. 124/2015 prevede che “E’ fatto divieto alle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo n. 165 del 2011, nonché alle pubbliche amministrazioni inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi dell’articolo 1, comma 2, della legge 31 dicembre 2009, n. 196 nonche’ alle autorita’ indipendenti ivi inclusa la Commissione nazionale per le società e la borsa (Consob) di attribuire incarichi di studio e di consulenza a soggetti gia’ lavoratori privati o pubblici collocati in quiescenza. Alle suddette amministrazioni e’, altresi’, fatto divieto di conferire ai medesimi soggetti incarichi dirigenziali o direttivi o cariche in organi di governo delle amministrazioni di cui al primo periodo e degli enti e societa’ da esse controllati, ad eccezione dei componenti delle giunte degli enti territoriali e dei componenti o titolari degli organi elettivi degli enti di cui all’ articolo 2, comma 2-bis, del decreto-legge 31 agosto 2013, n. 101 , convertito, con modificazioni, dalla legge 30 ottobre 2013, n. 125 . Gli incarichi, le cariche e le collaborazioni di cui ai periodi precedenti sono comunque consentiti a titolo gratuito. Per i soli incarichi dirigenziali e direttivi, ferma restando la gratuità, la durata non può essere superiore a un anno, non prorogabile ne’ rinnovabile, presso ciascuna amministrazione”.

Il legislatore, attraverso la disposizione in commento, ha introdotto limitazioni al conferimento di incarichi (retribuiti) di studio, di consulenza, dirigenziali, direttivi e di cariche in organi di governo ai soggetti collocati in quiescenza. Il divieto si traduce, secondo la Sezione Centrale del controllo di legittimità sugli atti del Governo e delle Amministrazioni dello Stato, in un “impedimento generalizzato al conferimento di incarichi a soggetti in quiescenza[1]” (SCCLEG nn. 35/2014 e 7/2015[2]).

La ratio di tale divieto, il cui raggio di operatività è stato diversamente modulato negli anni per effetto di successivi interventi normativi tra i quali spiccano quelli riconducibili al D.L. n. 90/2014 e alla L. 124/2015, risiede nella scelta legislativa di conseguire un duplice obiettivo: favorire il ricambio generazionale nella pubblica amministrazione e, più in generale, supportare l’inserimento nel mondo del lavoro dei giovani nonché conseguire risparmi di spesa, evitando di corrispondere la retribuzione a un soggetto che già gode del trattamento di quiescenza.

Sotto quest’ultimo aspetto, ci si riporta a quanto evidenziato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 124/2017 la quale, ancorché resa con riferimento ad altre disposizioni legislative, non manca di rimarcare che “È pur vero che può corrispondere ad un rilevante interesse pubblico il ricorso a professionalità particolarmente qualificate, che già fruiscono di un trattamento pensionistico. Tuttavia, il carattere limitato delle risorse pubbliche giustifica la necessità di una predeterminazione complessiva – e modellata su un parametro prevedibile e certo – delle risorse che l’amministrazione può corrispondere a titolo di retribuzioni e pensioni. Tale ratio ispira, del resto, anche le disposizioni dell’art. 5, comma 9, del d.l. n. 95 del 2012, che vietano l’attribuzione di incarichi di studio o di consulenza ai lavoratori pubblici o privati collocati in quiescenza e a tali lavoratori consente di ricoprire incarichi dirigenziali o direttivi o in organi di governo delle amministrazioni solo a titolo gratuito.” Il Giudice delle leggi individua, quindi, nel D.L. n. 95/2012 uno dei “capillari interventi che il legislatore ha scelto di apprestare negli ambiti più disparati” quale “misura di contenimento della spesa pubblica”.

Le argomentazioni contenute nella menzionata sentenza n. 124/2017 sono state riprese e sviluppate non solo dalla giurisprudenza contabile[3] ma anche da quella amministrativa che, con riferimento al disposto normativo oggetto di quesito, ha costantemente messo in risalto il favor del legislatore per l’occupazione giovanile ad esso sotteso reputando che “Il legislatore ha così introdotto limitazioni al conferimento di incarichi di studio, di consulenza, dirigenziali, direttivi o cariche in organi di governo a soggetti, già lavoratori privati o pubblici collocati in quiescenza, con l’obiettivo di agevolare il ricambio generazionale (TAR Valle d’Aosta, sentenza 14 giugno 2016 n. 27; per Cons. St., sez. V, sentenza 15 novembre 2016 n. 4718è evidente la ratio “di favorire l’occupazione giovanile”) nelle pubbliche amministrazioni e conseguire risparmi di spesa. Tali incarichi sono consentiti a titolo gratuito con una limitazione temporale per un anno per quelli dirigenziali o direttivi e in tutti gli altri casi senza limiti di tempo. Tale obiettivo è scolpito nella circolare n. 6/2014 del Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione, secondo cui le modifiche introdotte con l’art. 6 del D.L. n. 90/2014 “sono volte ad evitare che il conferimento di alcuni tipi di incarico sia utilizzato dalle amministrazioni pubbliche per continuare ad avvalersi di dipendenti collocati in quiescenza o, comunque, per attribuire a soggetti in quiescenza rilevanti responsabilità nelle amministrazioni stesse, aggirando di fatto lo stesso istituto della quiescenza e impedendo che gli organi di vertice siano occupati da dipendenti più giovani. Le nuove disposizioni sono espressive di un indirizzo di politica legislativa volto ad agevolare il ricambio e il ringiovanimento del personale nelle pubbliche amministrazioni (Consiglio di Stato – Sezione prima – parere n. 00309/2020)[4]”.

In dottrina non si è concordato con la presa di posizione della giurisprudenza, vi sono autori che hanno negato recisamente che la ratio della normativa de quo possa ravvisarsi nella promozione dello sviluppo giovanile.

Ad esempio Mocella[5] notava: “Il presunto favor del legislatore per l’occupazione giovanile si rivela quindi un vuoto paravento per coprire il reale intento: evitare di pagare due volte (pensione e retribuzione dell’incarico) il medesimo soggetto, senza alcun criterio correttivo”.

In effetti, alcune Corti di Giustizia non hanno creduto che la disciplina in esame consentisse e favorisse il ricambio generazionale, al contrario, tale normativa, secondo questo orientamento, era dettata da strette esigenze di finanza pubblica che però andavano a comprimere legittime posizioni di diritto creando una forma di discriminazione per l’età non tollerabile dall’ordinamento eurounitario.

Così il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sardegna, con ordinanza del 21 febbraio 2018, rimise alla Corte di Giustizia Europea la valutazione di compatibilità della normativa di cui all’art. 5, comma 9, del D.L. n. 95/2012 con gli articoli 1 e 2 della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000.

2. La presa di posizione della Corte di Giustizia Europea.

La Corte di Giustizia Europea[6] esaminando la normativa recata dall’art. 5, comma 9, del D.L. n. 95/2012 ha evidenziato come essa costituisca indubbiamente una forma di discriminazione per età[7].

Sebbene la disciplina non faccia direttamente riferimento a una determinata soglia anagrafica ma al collocamento in quiescenza, il cui raggiungimento può variare in relazione all’età, la norma si basa indirettamente su un criterio collegato all’età “dal momento che il beneficio di un trattamento di quiescenza è subordinato al compimento di un certo numero di anni di lavoro e alla condizione di aver raggiunto una determinata età”, determinando per i soggetti che vi rientrano un trattamento meno favorevole di quello riservato a tutte le persone che esercitino ancora un’attività lavorativa[8].

Occorre quindi esaminare se le finalità della normativa, che il Governo italiano individua nel duplice obiettivo di “realizzare un’effettiva revisione della spesa pubblica mediante la riduzione dei costi di funzionamento dell’amministrazione pubblica, senza danneggiare la sostanza dei servizi forniti ai cittadini, e, dall’altro, facilitare il ringiovanimento del personale delle amministrazioni pubbliche, favorendo l’accesso di persone più giovani alla funzione pubblica”, possano integrare una delle cause di giustificazione della predetta discriminazione previste dalla direttiva.

Sul punto, appare di particolare rilevanza la considerazione svolta dalla Corte secondo la quale le considerazioni di bilancio non possono fungere da idonea giustificazione a differenza della promozione dell’occupazione giovanile, la quale può invece essere un obiettivo legittimo da perseguire[9], purché si verifichi che i mezzi apprestati per conseguire detta finalità siano appropriati e necessari.

In questo contesto, la Corte affida ha adottato un approccio morbido: invece di dichiarare la non compatibilità con l’ordinamento eurounitario della normativa di cui al DL 95/2012 ha affidato ai Giudici nazionali la verifica della congruità della disciplina in esame rispetto ai mezzi utilizzati e i fini perseguiti.

Si crede che l’approccio della Corte di Giustizia Europea abbia peccato di approfondimento. Una volta evidenziato che le esigenze di bilancio non possono giustificare una discriminazione per l’età, si doveva appurare se il divieto imposto ai pubblici impiegati collocati in quiescenza di assumere incarichi presso la PA fosse giustificabile in un’ottica di promozione dello sviluppo del lavoro giovanile, tenuto conto che anche la Corte Costituzionale ha ritenuto che la normativa in esame fosse spinta innanzitutto da questioni di finanza pubblica.

In altri termini, la Corte di Giustizia Europea aveva tutti gli strumenti ermeneutici per verificare quale fosse l’interesse principale al blocco degli incarichi per il personale in quiescenza. Affidando, invece, la risoluzione della problematica al singolo Giudice a quo la i Giudici Europea hanno reso traballante la normativa con seri rischi in punto di certezza del diritto.

3. Il cuore del problema: la figura del Direttore Sanitario e l’applicabilità delle deroghe previste dall’art. 2 bis, comma 5 del DL 18/2020, dall’art. 10 comma 5 bis del DL 24 marzo 2022 n. 24 e dal comma 4 bis dell’art. 36 del D.L. 21 giugno 2022 n. 73 al personale pubblico con incarichi direttivi.

Si premetta che il Direttore Sanitario[10] è il garante ultimo dell’assistenza sanitaria ai pazienti e del coordinamento del personale sanitario operante nella struttura, affinché tale attività sia sempre improntata a criteri di qualità e di sicurezza. È una figura chiave per gli utenti e per gli operatori del corretto esercizio delle prestazioni sanitarie erogate all’interno della struttura, e cioè che siano effettuate in sicurezza, da personale sanitario con adeguata preparazione ed in condizioni igienico-sanitarie adeguate oltre che in modo conforme alle regole di deontologia professionale.

Ai sensi del comma 8 dell’art. 3 bis D. Lgs. n. 502 del 1992 “Il rapporto di lavoro del direttore generale, del direttore amministrativo e del direttore sanitario è esclusivo ed è regolato da contratto di diritto privato, di durata non inferiore a tre e non superiore a cinque anni, rinnovabile, stipulato in osservanza delle norme del titolo terzo del libro quinto del codice civile. La regione disciplina le cause di risoluzione del rapporto con il direttore amministrativo e il direttore sanitario. Il trattamento economico del direttore generale, del direttore sanitario e del direttore amministrativo è definito, in sede di revisione del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 19 luglio 1995, n. 502, anche con riferimento ai trattamenti previsti dalla contrattazione collettiva nazionale per le posizioni apicali della dirigenza medica e amministrativa”.

Il rapporto di lavoro del Direttore Sanitario è parasubordinato e su base fiduciaria, quindi, alla risoluzione del rapporto di lavoro del Direttore Generale dovrebbe seguire la decadenza del Direttore Sanitario anche se tali previsioni in concreto sono rimesse alla disciplina regionale.

Non vi è dubbio che l’incarico di Direttore Sanitario, stante le grandi responsabilità di cui è assegnatario, sia dirigenziale/direttivo essendo un organo apicale della struttura e della organizzazione sanitaria dell’azienda ospedaliera.

Quindi, è chiaro che anche per il Direttore Sanitario si applichino le previsioni di cui al comma 9 dell’art. 5 del DL 95/2012 stante l’ampio richiamo alle pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1 TUPI.

Non si ritiene che le disposizioni recate dal D. Lgs. n. 171 del 2016, in materia di criteri per la selezione e la nomina della figura del Direttore Sanitario, deroghino alle disposizioni di cui al DL 95/2012 sulla base del criterio cronologico e di quello di specialità.

Infatti, la normativa prevista dal D. Lgs. n. 171 del 2016 non si occupa di regolare il conflitto tra lo stato di quiescenza e il rapporto di lavoro del Direttore Sanitario contenendo l’apparato normativo più che altro norme di garanzia per la selezione del più capace nel ruolo di cui stiamo trattando.

Né la previsione di un minimo e di un massimo di tempo di durata dell’incarico dirigenziale può far propendere a diversa soluzione. Infatti, non vi sarebbe nessun problema di coordinamento nell’applicare la normativa di cui al DL. 95/2012, in pendenza del rapporto di lavoro, potendo in tal caso qualificarsi la cessazione del rapporto di lavoro per quiescenza come una forma di risoluzione dal contratto ex lege.

Una normativa che, al contrario, espressamente deroga alle previsioni di cui all’art. 5 comma 9 del DL. 95/2012 è l’art. 2 bis, comma 5 del DL 18/2020 (c.d. normativa emergenziale per la pandemia COVID 19).

Tale norma prevede “Fino al 31 luglio 2020, al fine di far fronte alle esigenze straordinarie e urgenti derivanti dalla diffusione del COVID-19 e di garantire i livelli essenziali di assistenza, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, in deroga all’articolo 5, comma 9, del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135, e all’articolo 7 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, verificata l’impossibilita’ di assumere personale, anche facendo ricorso agli idonei collocati in graduatorie concorsuali in vigore, possono conferire incarichi di lavoro autonomo, anche di collaborazione coordinata e continuativa, con durata non superiore a sei mesi, e comunque entro il termine dello stato di emergenza, a dirigenti medici, veterinari e sanitari nonche’ al personale del ruolo sanitario del comparto sanita’, collocati in quiescenza, anche ove non iscritti al competente albo professionale in conseguenza del collocamento a riposo, nonche’ agli operatori socio-sanitari collocati in quiescenza”.

Com’è chiaro dal tenore del testo normativo, il legislatore, in occasione dell’emergenza pandemica, ha previsto che si possa derogare ai vincoli imposti dal DL 95/2012 assumendo personale sanitario in quiescenza.

Inoltre, secondo l’art. 10 comma 5 bis del Decreto Legge del n. 24 del 2022 Il termine di cui al comma 5 dell’articolo 2-bis del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 aprile 2020, n. 27, in materia di conferimento di incarichi di lavoro autonomo, anche di collaborazione coordinata e continuativa, a dirigenti medici, veterinari e sanitari nonché al personale del ruolo sanitario del comparto sanità, collocati in quiescenza, anche ove non iscritti al competente albo professionale in conseguenza del collocamento a riposo, nonché agli operatori socio-sanitari collocati in quiescenza, è prorogato al 31 dicembre 2022”.

Infine, secondo l’art. 36, comma 4 bis, del Decreto Legge del n. 73 del 2022 “L’applicazione delle disposizioni dell’articolo 2-bis, comma 5, del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 aprile 2020, n. 27, è prorogata fino al 31 dicembre 2023”.

Quindi, la deroga individuata dall’art. 2 bis, comma 5 del DL 18/2020 è stata da ultimo prorogata al 31 dicembre 2023.

Vi è il dubbio se le norme in parola, dettate dall’emergenza sanitaria, si possano applicare oltre al personale sanitario c.d. “In corsia” anche alla dirigenza amministrativa sanitaria.

Una relazione della Camera dei Deputati, del 24 maggio 2020 rubricata “Misure per il rafforzamento del personale sanitario nell’emergenza coronavirus”, che analizza la disciplina recata dall’art. 2 bis del D.L. n. 18 del 2020, sembrerebbe deporre per una soluzione negativa ovvero per l’inapplicabilità della normativa emergenziale sul personale in quiescenza anche al personale dirigenziale amministrativo sanitario.

Difatti, tale relazione analizzando la ratio della disciplina emergenziale dispone “In seguito all’aggravarsi dell’emergenza sanitaria collegata al Coronavirus, l’art. 2-bis del decreto legge n. 18 del 2020 ha esteso a tutto il territorio nazionale la portata delle norme transitorie relative alla stipula di contratti di lavoro autonomo con personale medico ed infemieristico, con la specifica finalità di incrementare il personale necessario per rafforzare i reparti di terapia “intensiva e sub intensiva” necessari per la cura dei pazienti affetti COVID-19”.

Quindi, si potrebbe credere che, avendo il legislatore previsto una deroga al divieto di cui all’art. 5, comma 9, D.L. n. 95 del 2020 esclusivamente per aumentare il personale medico “in corsia”, la disciplina recata dall’art. 2 bis, comma 5 del DL 18/2020, dall’art. 10 comma 5 bis del Decreto Legge del n. 24 del 2022 e dall’art. 36, comma 4 bis, del Decreto Legge del n. 73 del 2022 potrebbe non applicarsi al personale dirigenziale amministrativo sanitario.

La questione ha ampi risvolti, soprattutto sotto il profilo della responsabilità erariale. Invero, sono numerosi i casi di Aziende Sanitarie che in applicazione della disciplina emergenziale hanno prorogato la durata dell’incarico al proprio Direttore Sanitario anche quando quest’ultimo era stato posto in quiescenza.

Si ha notizia che la Corte dei Conti ha contestato ai Direttori Generali tali proroghe sottoponendo tale scelta alle regole del Giudizio Contabile.

Sicuramente, la normativa di riferimento non offre approdi robusti per stabilire se la normativa emergenziale sia applicabile o meno anche a chi non ricopra incarichi direttamente operativi.

Né la questione è stata approfondita dalla giurisprudenza e sono ridotti anche i contributi dottrinari sul tema.

Si crede che l’incertezza interpretativa debba essere risolta con il canone Ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit. In questa logica, la legge non pone alcuna distinzione tra incarichi operativi ed incarichi direttivi ed anzi estende il suo raggio di azione anche alle collaborazioni coordinate e continuative.

Pertanto, seppur le relazioni legislative paiono propendere per una soluzione restrittiva in ordine alla possibilità di estendere la norma alla dirigenza amministrativa sanitaria, non sembra ragionevole accogliere un’interpretazione della norma emergenziale circoscritta a solo alcune categorie di personale sanitario. Ciò coerentemente anche alla ratio legis della normativa emergenziale che inequivocabilmente mira ad evitare la paralisi degli enti sanitari alla cui organizzazione e operatività ovviamente concorrono anche chi assume un incarico direttivo.


[1] Con riguardo alla natura del rapporto preesistente, la norma non precisa se per lavoratori privati in quiescenza debbano essere intesi solo quelli subordinati, ovvero anche quelli parabubordinati o autonomi. Correttamente il Ministero per la semplificazione e la pubblica amministrazione aveva circoscritto, in sede di interpretazione, l’ambito applicativo della norma in discorso ai soli lavoratori dipendenti privati in quiescenza, escludendo quelli autonomi. Alcune pronunce della magistratura hanno inteso interpretare diversamente la legge includendo nella dizione “soggetti già lavoratori privati o pubblici” anche i lavoratori autonomi collocati in quiescenza (Corte conti, Sez. contr. reg. Sardegna, n. 90/2020; Sez. contr. reg. Piemonte, n. 66/2018; Sez. contr. reg. Puglia, n. 193/2014; Sez. contr. reg. Lombardia, n. 180/2018, in questa Rivista, 2018, fasc. 3-4, 102).

[2] Sulla vicenda sono intervenute due circolari del Ministero per la semplificazione e la pubblica amministrazione, circ. 4 dicembre 2014, n. 6; 10 novembre 2015, n. 4.

[3] L’inquadramento sistematico della disposizione in parola è stato approfondito dalla giurisprudenza della Corte dei Conti che ha rimarcato “la natura palesemente selettiva del divieto introdotto dalla norma, la quale introduce nel sistema – in modo diretto e senza deroghe o eccezioni, se non per il caso della gratuità e per la durata massima di un anno – un impedimento generalizzato al conferimento di incarichi a soggetti in quiescenza. Tale impedimento appare fondato su un elemento oggettivo che non lascia spazio a diverse opzioni interpretative (così, ex multis, Sezione centrale del controllo di legittimità sugli atti del Governo e delle Amministrazioni dello Stato, deliberazione n. 7/2015 e ivi ulteriori richiami)”.

[4] Nella sua versione originaria, la norma in discussione vietava di “attribuire incarichi di studio e di consulenza a soggetti, già appartenenti ai ruoli delle stesse (il riferimento è alle “pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo n. 165/2001, nonché alle pubbliche amministrazioni inserite nel conto economico consolidato come individuate dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi dell’art. 1, comma 2, della legge 31 dicembre 2009, n. 196 nonché alle autorità indipendenti ivi inclusa la Commissione nazionale per la società e la borsa”) e collocati in quiescenza, che abbiamo svolto, nel corso dell’ultimo anno di servizio, funzioni e attività corrispondenti a quelle oggetto dello stesso incarico di studio e di consulenza”. L’impedimento all’attribuzione di incarichi a soggetti in quiescenza aveva, quindi, una portata più circoscritta rispetto alla formulazione attualmente vigente. In particolare, sul piano soggettivo, la definizione dei soggetti sottoposti al divieto abbracciava unicamente i dipendenti pubblici in quiescenza che avessero svolto nell’ultimo anno di servizio attività analoghe a quelle oggetto di incarico e, sul piano oggettivo, la tipologia di attività vietata era limitata a quella di studio e di consulenza. Con la novella del 2014 (art. 6 del D.L. n. 90/2014 come modificato, in sede di conversione, dalla L. n. 114/2014) l’ambito del divieto de quo viene esteso arrivando ad abbracciare, sul fronte soggettivo, tutti i “soggetti già lavoratori privati o pubblici collocati in quiescenza” e giungendo a comprendere, sul fronte oggettivo, anche gli “incarichi dirigenziali o direttivi o cariche in organi di governo”. Inoltre, la latitudine applicativa della norma viene espansa con riferimento agli incarichi de quibus in “enti e società” controllati dalle amministrazioni di cui al primo periodo dell’articolo in commento, salvo le eccezioni ivi indicate.

[5] La compatibilità della norma dell’art. 5, c. 9, d.l. n. 95/2012 con la disciplina europea sulle discriminazioni per età, In rivista della Corte dei Conti n. 6/2020.

[6] Corte Giust. 2 aprile 2020, causa C-670/18, in Rivista della Corte dei Conti 2020, fasc. 2, 261.

[7] Sia consentito rinviare a M. Mocella, Età pensionabile e discriminazione in ragione dell’età, in Riv. it. dir. lav., 2011, II, 515 M. Militello, Le nuove discriminazioni, in S. Sciarra (a cura di), Manuale di diritto sociale europeo, Torino, Giappichelli, 2010, 129; L. Imberti, Il criterio dell’età tra divieto di discriminazione e politiche del lavoro, in Riv. it. dir. lav., 2008, II, 303. Sulle discrimina-zioni in genere, G. Tesauro, Eguaglianza e legalità nel diritto comunitario, in Dir. Unione europea, 1999, 1.

[8] In attuazione del nuovo art. 13 del Tce (ora art. 19 Tfue), il quale attribuisce al Consiglio la facoltà di “prendere i provvedimenti opportuni per combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l’origine etnica, la religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali”, è stata come noto emanata la direttiva 2000/78/Ce che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro. Giova ricordare che quest’ultima si applica “a tutte le persone, sia del settore pubblico che del settore privato, compresi gli organismi di diritto pubblico”, per quanto attiene, da un lato, “alle condizioni di accesso all’occupazione […] compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione”, e, dall’altro, “all’occupazione e alle condizioni di lavoro, comprese le condizioni di licenziamento e la retribuzione”. Occorre rilevare che le discriminazioni vietate non sono soltanto quelle dirette, nelle quali un soggetto o un gruppo di soggetti viene direttamente discriminato in ragione di un determinato fattore protetto, tra cui l’età, ma anche quelle indirette, vale a dire norme, comportamenti o prassi che pongono un gruppo di soggetti appartenenti ad una categoria in posizione di svantaggio rispetto agli altri lavoratori in ragione di uno dei fattori protetti. Come per tutte le discriminazioni, tuttavia, anche per quelle in ragione dell’età esistono delle cause di giustificazione che, nel caso di specie, sono costituite dal fatto che le disparità di trattamento siano “oggettivamente e ragionevolmente giustificate” da una finalità legittima e perseguita con mezzi “appropriati e necessari” (art. 6, n. 1, direttiva 2000/78/Ce) (8). La Corte di giustizia ha ribadito in diverse occasioni, a partire dalla nota sentenza Mangold, che il principio di parità di trattamento in materia di occupazione e lavoro appartiene al novero dei principi generali del diritto dell’Unione, derivando da principi internazionali e dalle tradizioni costituzionali comuni ai Paesi membri. In numerose sentenze proprio l’esame delle condizioni di giustificazione delle discriminazioni, vale a dire l’esistenza di una finalità oggettiva e legittima, nonché dell’appropriatezza e della necessarietà dei mezzi utilizzati per perseguire tale finalità, ha costituito l’elemento centrale di tali pronunce.

[9] Secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea, la promozione dell’assunzione costituisce incontestabilmente una finalità legittima di politica sociale o dell’occupazione degli Stati membri, segnatamente quando si tratta di migliorare le opportunità di inserimento nella vita attiva di determinate categorie di lavoratori, e in particolare di favorire l’accesso dei giovani all’esercizio di una professione (v., in tal senso, sentenze del 16 ottobre 2007, Palacios de laVilla, C‑411/05, EU:C:2007:604, punto 65, nonché del 19 luglio 2017, Abercrombie & Fitch Italia, C‑143/16,EU:C:2017:566, punto 37). In particolare, è giustificato, a titolo di deroga al principio del divieto delle discriminazioni basate sull’età, instaurare disparità di trattamento collegate alle condizioni di accesso all’occupazione, quando l’obiettivo perseguito consiste nello stabilire un equilibrio strutturale in ragione dell’età tra giovani funzionari e funzionari più anziani, alfine di favorire l’assunzione e la promozione dei giovani (v., in tal senso, sentenza del 21 luglio 2011, Fuchs eKöhler, C‑159/10 e C‑160/10, EU:C:2011:508, punto 50).

[10] Per un approfondimento si rinvia a Altomare, Il direttore sanitario risponde delle carenze organizzative della struttura nella quale svolge il suo compito, Ridare.it, fasc., 10 FEBBRAIO 2020. Bonomi, La dirigenza sanitaria, fasc. 7/2014

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